Le interviste virtuali di Tiziana Carena

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Intervista a Chiara Sironi sul volume Edipo. Re e vittima a cura di Maddalena Mazzocut-Mis e Gianfranco Mormino, Milano, Mimesis, 2014

Chiara Sironi è dottoranda di ricerca con borsa di studio in Scienze Filosofiche – indirizzo Estetica e Teoria delle Arti presso l’Università degli Studi di Palermo. Il suo campo di ricerca riguarda l’estetica del Settecento, in particolare l’estetica di ambito inglese. Dal 2013 collabora attivamente con il gruppo di ricerca diretto dalla Prof.ssa Maddalena Mazzocut-Mis, docente di Estetica e di Estetica dello Spettacolo presso l’Università degli Studi di Milano.
Tra le sue pubblicazioni si segnala il saggio «L’Oedipus di Dryden e Lee: un percorso nel labirinto della Natura», in Edipo. Re e vittima, a cura di M. Mazzocut-Mis e G. Mormino, Mimesis, Milano 2014.

Il volume Edipo. Re e vittima, curato da Maddalena Mazzocut-Mis e Gianfranco Mormino, raccoglie una serie di saggi che, a partire dalle competenze specialistiche degli autori, si interrogano sulle ragioni della straordinaria fecondità di un testo che va annoverato tra i pochi realmente fondativi della cultura occidentale. Nelle pagine dell’introduzione i curatori ci informano che «ripensare oggi il mito di Edipo è possibile solo nella forma plurale di un incrocio di studi filologico-letterari, filosofici, antropologici e di storia del teatro». E questa raccolta di saggi costituisce sicuramente uno strumento aggiornato per avvicinarsi alla complessità tematica del mito Edipo.

– Qual è la ragione intima delle continue riscritture dell’Edipo sofocleo? Il mito di Edipo nasce ben prima della nascita della cultura greca, eppure esso continua ad affascinare l’umanità occidentale. Perché?

Affrontare oggi il mito di Edipo significa intraprendere necessariamente un approccio interdisciplinare, in quanto solo un’analisi che tenga conto della stratificazione di significati che questa figura ha assimilato nel tempo può restituire un’immagine fedele del mito. La figura di Edipo ha infatti assunto nella cultura occidentale uno spessore che non le consente più di aderire all’originale sofocleo: quando si parla di mito, infatti, come suggerisce Elisa Bizzarri nel suo saggio, contenuto in Edipo. Re e vittima, «non è possibile trattar[lo] come qualcosa di esistente di per sé e omogeneo nel suo interno. Pare corretto, piuttosto, riferirsi a un “materiale mitico”, a un “patrimonio di miti” costituito dall’insieme delle forme che le vicende relative ad un determinato personaggio o luogo assumono nella tradizione religiosa e letteraria. Spesso molteplici e variegate, non di rado in contrasto fra loro, esse sono il prodotto di diverse epoche, di differenti tradizioni e – in fase storica – di vari autori. Il patrimonio mitico è dunque frutto di una stratificazione di numerose e diverse versioni di una medesima vicenda tradizionale». Per queste ragioni non si può slegare il testo originale di Sofocle da un cospicuo corpus di studi che, più o meno direttamente, hanno contribuito ad approfondirne e arricchirne l’immaginario. Se oggi possiamo parlare di un “mito di Edipo” è proprio perché storicamente l’interesse nei confronti di questo soggetto non è mai venuto meno; anzi, in più di un’occasione, la vicenda di Edipo è stata elevata a esempio paradigmatico attraverso il quale proporre nuovi indirizzi di ricerca: si pensi ad esempio all’interpretazione di Sigmund Freud o a quella, più recente, di René Girard. Un tale successo non è casuale, ma trova la sua ragion d’essere nella fecondità di un testo che, malgrado la sua antichità, è capace ancora oggi di stimolare riflessioni.

Nella storia occidentale sono state molteplici le riscritture teatrali (Seneca, Corneille, Dryden, Voltaire, solo per citare gli esempi più noti); ancora di più sono i saggi critici, che sono stati e che continuano ad essere pubblicati, di cui il volume Edipo. Re e vittima rappresenta cronologicamente solo l’ultimo contributo a un’inesauribile bibliografia critica. Ma non solo, il testo sofocleo ha saputo adeguarsi con efficacia anche alle nuove forme espressive, proponendosi anche in versione cinematografica. Questi esempi rivelano la molteplicità di forme che il racconto di Edipo può assumere; un testo, quello sofocleo, che fin dall’origine esibisce la sua natura contraddittoria e che, proprio in virtù di questa apertura a sempre nuove vie interpretative, si sa plasmare e adeguare ai nuovi interrogativi che l’uomo si pone: Edipo stesso, del resto, è fondamentalmente la metafora dell’uomo che ricerca se stesso. Le continue riscritture e studi non sono altro che un tentativo mai definitivo di attualizzare al proprio tempo e alla propria società le problematiche sollevate dall’originale sofocleo, indagando come uno stesso testo si apra a nuove configurazioni, relativamente al tempo e al contesto sociale in cui viene ripreso. Non è, dunque, solo l’interrogazione di Edipo ma è un’interrogazione che una cultura fa a se stessa e al suo modo di percepirsi. La fortuna di Edipo è l’enigma che lo avvolge. E, per concludere con le parole di Guidorizzi, «il mito non è mai concluso perché c’è sempre un’altra versione da leggere e non è mai concluso perché c’è sempre un’altra versione da scrivere».

– Che cosa significa la orgogliosa auto-proclamazione di Edipo come “figlio della sorte” nel testo sofocleo?

L’espressione “figlio della Fortuna” viene pronunciata pochi attimi prima che Edipo assista inerme al capovolgimento degli eventi che lo porteranno alla scoperta della tremenda verità. Infatti, fino al momento del sospetto e dell’agnizione, Edipo ha ben ragione di proclamarsi “figlio della sorte”, perché solo eventi favorevoli hanno guidato la sua condotta: figlio di un re, uomo dotato di un’intelligenza superiore capace di risolvere un enigma irresolubile, salvatore di una città, ottimo reggente della stessa, marito e padre appagato di una famiglia felice. Tuttavia, nel volgere di una sola giornata (la durata convenzionale di una vicenda tragica), Edipo incontra anche l’altra metà di sé, quella oscura, scoprendo di essere il figlio della maledizione, essendosi macchiato delle colpe di parricidio e incesto.

L’espressione nasce da un duplice livello di fraintendimento. Egli, nel testo sofocleo afferma: «ma io, che mi considero figlio della Fortuna benefica, non per questo mi sentirò diminuito. La Fortuna è mia madre, e i mesi nati con me volta a volta mi fecero e umile e grande. Se tale è la mia nascita, non la potrò mai modificare. Perché non dovrei indagare la mia origine?». Edipo pronuncia questa frase quando Giocasta esce di scena, sconfitta nel suo estremo tentativo di dissuadere Edipo dallo scoprire chi egli sia veramente. Il primo equivoco è quindi di natura lessicale, derivante dal fatto che Edipo ha inteso il suo “essere” nel senso di umili natali e di modesta estrazione sociale. In tal modo, Edipo interpreta la causa della fuga di Giocasta nel disappunto verso le sue umili origini, non sospettando che la regina di Tebe aveva già nella sua mente indovinato il triste esito di quella ricerca. “Figlio della Fortuna” si reputa, perché da trovatello è diventato re, da piccolo è diventato grande.

Il secondo fraintendimento è conseguenza della tracotanza (hybris) che caratterizza il protagonista. La hybris è un evento accaduto nel passato che influenza in modo negativo gli eventi del presente: è una colpa dovuta a un’azione che viola le leggi divine immutabili, ed è la causa per cui, anche a distanza di molti anni, i personaggi o la loro discendenza sono portati a commettere crimini o a subire azioni malvagie. Edipo rientra in quest’ultima casistica: è vittima della vendetta degli dei in quanto discendente di un colpevole di tracotanza; infatti, secondo l’antefatto della tragedia sofoclea, il vero padre di Edipo, Laio, aveva peccato di superbia, giacendo con Giocasta malgrado il divieto divino. Perciò, la colpa che grava sulla stirpe di Laio, unita alla convinzione di essere un favorito dagli dei e di godere della stabile protezione della Fortuna (superbia), fanno di Edipo doppiamente un bersaglio per la vendetta degli dei. L’entusiastico “figlio della Fortuna”, che Edipo proclama con valore positivo, si risolve nel suo segno negativo. La sorte di Edipo si stravolge con il volgere dall’ignoranza alla conoscenza, nel momento in cui prende coscienza di essere il colpevole che andava cercando, ossia l’uccisore del re, che è suo padre, nonché il marito della regina, che è sua madre: rovesciamento e riconoscimento accadono simultaneamente. Edipo è sì figlio della sorte, ma di una sorte che non è mai stata benigna con lui ma che, all’opposto, ha generato la catastrofe.

–  L’interpretazione freudiana del mito di Edipo, che nasce dalla formazione classica di Freud e dalla sua famigliarità con la mitologia greca, ha ancora elementi di attualità? Freud è ancora molto presente anche nei programmi della secondaria superiore…

Freud, attraverso la fondazione della psicanalisi, conferisce al mito di Edipo un’interpretazione che va a condizionare profondamente il suo significato. La vicenda di Edipo diventa una vicenda interiore dell’uomo e la “sorte” si trasforma nell’inconscio: ciò che nella tradizione greca era vista come una colpa, nella nuova scienza psicanalitica diventa una necessità. L’Edipo novecentesco non è più in conflitto tra scelta e destino, ma contro una parte di se stesso, una parte che gli è ignota ma che tuttavia lo attrae irresistibilmente: l’inconscio rappresenta una congerie di forze al cospetto della quale la volontà è inerme. È cogliendo questa natura “involontaria” della colpa che si può rintracciare oggi un elemento di attualità nella teoria di Freud.

Chi ha riflettuto, più recentemente, su questo tema è stato René Girard. L’autore, che ha avuto modo di confrontarsi anche con le teorie di Freud, ne La violenza e il sacro teorizza il meccanismo del capro espiatorio, secondo il quale delle vittime impotenti sono oggetto di una persecuzione riuscita. Edipo, calunniato con le false accuse di regicidio e incesto da una collettività che brama di trovare un responsabile al quale imputare il presente stato di crisi, rappresenta un esempio di tale meccanismo. Le accuse che gli vengono mosse sono un elemento ricorrente nelle culture di ogni parte del mondo e, come il malocchio, esse rappresentano un “causa” abbastanza accreditata per qualsiasi disgrazia sociale. La comunità perciò non incontra difficoltà a crederle e, proporzionalmente al vigore con cui vengono condivise, esse avranno un’efficacia tale da individuare in uno specifico individuo il responsabile. Il successo dell’accusa contro Edipo dipende, così, dal convergere del biasimo di tutti su un unico individuo. Come afferma Gianfranco Mormino nel suo saggio in Edipo. Re e vittima, «la mimesi, che governa i meccanismi della credenza e trasforma i sospetti più incerti in verità, si fa così unico fondamento delle accuse contro Edipo».

Girard non è interessato a indagare la veridicità delle accuse, quanto a descrivere un meccanismo che porta una comunità ad epurarsi da chi è stato collettivamente accusato di essere responsabile: ogni stabilità culturale si fonda sulla persecuzione del tutti contro uno.

– Come studiosa di estetica ed estetica dello spettacolo, che cosa ti suggerisce la famosa immagine di Edipo che interroga la Sfinge? Se volessi allegare anche un’immagine particolare dell’iconografia edipea potrebbe essere molto interessante.

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Centrale, come si è avuto modo di ribadirlo più volte, nel mito di Edipo è il problema della conoscenza, visto sotto varie prospettive: come interesse verso le proprie origini, come ricerca del colpevole dell’uccisione del re di Tebe e anche come confronto con la Sfinge. Nell’iconografia relativa alla figura di Edipo, il tema dell’interrogazione della Sfinge è forse quello più ricorrente, o almeno, è quello che più intuitivamente ci fa pensare a Edipo. La variante più nota del mito racconta che il mostro obbligava le sue vittime a sottostare a un enigma e che uccideva tutti quelli che non riuscivano a rispondere: la Sfinge era un essere divino che conosceva gli enigmi e che era quindi custode di un’oscura sapienza.

Considerato che il tema dell’enigma ricorre spesso nella produzione “metafisica” di De Chirico, ho scelto come immagine da accostare, quella del quadro di De Chirico, Edipo e la Sfinge. Ciò che stupisce in questa rappresentazione è la figura di Edipo; a differenza della Sfinge che è connotata dettagliatamente (nell’immaginario dei Greci la Sfinge compare regolarmente come donna-leonessa con volto femminile e ali da uccello), egli compare privo di volto. Edipo, l’uomo dotato di un’intelligenza al di fuori del comune è colui che in realtà non conosce se stesso. Questo Edipo, fiero della sua sapienza, tutta umana e intellettuale, non sa leggere tra le righe l’ambiguità dell’enigma che la Sfinge gli sottopone: «chi è l’animale che di mattina cammina su quattro gambe, a mezzogiorno su due, la sera su tre?». L’uomo, risponde Edipo, che da bambino cammina sui quattro arti, da adulto si alza sui due piedi e da vecchio si appoggerà al bastone; ma ciò che sfugge a Edipo è che l’enigma si riferisce sia all’uomo in generale sia a lui stesso, Edipo, nelle tre fasi della sua storia: al bambino che fu esposto sul monte, all’adulto che diventa re e al vecchio cieco che sarà nel seguito, in Edipo a Colono. Il suo accecarsi fa del suo volto la rappresentazione del suo mondo interno, il vero enigma della tragedia. Allora, come non ripensare alla sentenza di Tiresia, riportata nella riscrittura del mito a opera di Dryden e Lee: «sei tu stesso un mistero, un intricato oscuro enigma; e quando lo risolverai sarai trovato e perduto».

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L’autrice Tiziana Carena

 

 

 

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