Piccoli umani di fronte alla grandiosa natura

Elisabetta Gatto

 

A dispetto della fatica e degli imprevisti lungo la strada, Wild di Jean-Marc Vallée (presentato al TFF 2014) suscita una gran voglia di mettersi in cammino. Di buttare dentro lo zaino l’essenziale e di voltare le spalle al passato, guardando solo in avanti.

Sceneggiato da Nick Horby, è il racconto dell’avventura che Cheryl Strayed decide di intraprendere percorrendo il Pacific Crest Trail, il sentiero lungo 1600 chilometri che dal confine con il Messico arriva fino a quello con il Canada.

L’occasione estrema per allontanarsi dal dolore per la perdita della giovane madre a causa di un tumore, dalla dipendenza dall’eroina, dalla fine del suo matrimonio e da una serie innumerevole di uomini sbagliati.

Nei panni della donna c’è la bravissima Reese Witherspoon, che, minuta, ha il physique du rôle per rendere la piccolezza dell’essere umano di fronte alla grandiosità della natura.

Da sola, con il suo enorme zaino (“il mostro”, come lo chiamano i primi compagni di viaggio che incontra lungo il cammino) e una tenda, affronta il deserto, le montagne, la pioggia, la neve e il sole cocente, attraversa lo stato di Washington, l’Oregon e la California, sfida animali, malintenzionati, ma soprattutto se stessa. E impara, a ogni tappa, a essere un po’ più indulgente.

Scopriamo il suo passato un tassello alla volta: affiora attraverso la memoria di Cheryl, in un’abile sequenza di flashback, che ci riportano alla sua storia familiare. Conosciamo così il padre alcolizzato e violento, il fratello schivo, il marito che forse non amava abbastanza e soprattutto la figura straordinaria della madre, una donna semplice e solare, che guida i passi di Cheryl.

Wild, selvaggia, è la natura, sono i silenzi, è la solitudine che accompagna questo viaggio. È la stessa Cheryl, che sceglie “Strayed”, “randagia” come cognome dopo il divorzio.

Combattuta tra la voglia di rinunciare all’impresa e il desiderio di portarla a termine per diventare quella donna che aveva promesso di essere per sua madre, non la fermano le ferite alla schiena, alle spalle e ai piedi, né la fame e la sete. Quando avrà lasciato dietro di sé il dolore, alleggerito il bagaglio, saprà che sarà ora di fermarsi.

 

Cosa è normalità e cosa è follia?

Elisabetta Gatto

 

Il titolo Infinitely polar bear di Maya Forbes, presentato al TFF 2014, incuriosisce. E strappa un sorriso scoprire che si tratta di una storpiatura (“polar bear”/”bipolar”) che una bambina fa del termine usato per definire il disturbo bipolare da cui è affetto il suo papà. Da questo particolare si intuisce che la lettura che la regista ha scelto di dare della sindrome maniaco-depressiva sarà piena di tenerezza e persino divertente. Siamo a Boston negli anni ’70: Maggie ha conosciuto Cameron nell’era delle tragressioni e dell’anticonformismo, di hippies e “flower power” e si è innamorata della sua stravaganza, legandola agli eccessi di un’epoca. Ma i medici hanno un nome per il suo comportamento, inserito nella categoria del “disturbo bipolare”. In seguito a un crollo nervoso, deve allontanarsi dalla moglie e dalle due figlie per curarsi. Sarà però la moglie stessa a chiedergli di tornare per prendersi cura delle bambine, quando lei deciderà di accettare una borsa di studio a New York. Inizia così il ménage insolito di una famiglia tanto bizzarra quanto unita.

L’eccezionale interpretazione di Mark Ruffalo nella parte di Cameron suggerice una riflessione su cosa sia la normalità e quale sia il confine con la follia.

Eccentrico infatti è un uomo che in pieno inverno gira in slip in bicicletta e propone alla sua famiglia di fare il bagno nel lago, ma è anche un padre che bada alle figlie mentre la loro madre ha scelto di riprendere gli studi, non temendo che questo possa minare la sua mascolinità. È chi non si conforma, chi non teme il giudizio.

Il suo essere decisamente fuori dal comune è fonte di imbarazzo per le figlie in molte occasioni, ma un papà capace di grandi slanci riserva anche grandi sorprese.

Un adulto che conserva un entusiasmo fanciullesco e tiene lontana la vecchiaia, che per riprendere Erasmo da Rotterdam nell’Elogio alla follia, “neppure ci sarebbe se i mortali si guardassero da qualsiasi rapporto con la saggezza“.

Un esilarante Woody Allen ungherese

Elisabetta Gatto

 

For some inexplicable reason di Gábor Reisz è uno dei molti interessanti film presentati al TFF 2014.

Cosa lascia dietro di sè una relazione che finisce? Cosa si porta via chi ci abbandona? “Persino i suoi capelli dallo scarico del lavandino”, lamenta Aaron, trentenne, in preda alla nostalgia per la sua storia d’amore appena conclusa. Ovvero scopre di sentire la mancanza anche di quello che odiava o più lo esasperava. Vagando per le vie della sua città, Budapest, prova a scrivere il copione della sua vita, proprio come se si trattasse di un film. Ma c’è tempo per iniziare: “Oggi è domenica, domani è lunedì. Comincerò domani”. Per nulla aderente alla realtà – curioso il dettaglio delle scarpe e della sua andatura staccata da terra, come se stesse volando –, per i suoi genitori è inconcludente, per gli amici un ragazzo impacciato che ha bisogno di sciogliersi. Il giorno del suo compleanno, complice qualche bicchiere di troppo, compra senza pensarci su un costosissimo biglietto aereo per Lisbona. Che sia finalmente quella l’occasione per voltare pagina?

A tratti surreale (si pensi alla scena del cavo elettrico infinitamente lungo o a quella della telefonata interminabile), è un film molto divertente che racconta la generazione dei trentenni che sono alle prese con la difficoltà di tradurre in un lavoro gli studi compiuti e con il sogno di non rinunciarci. Esilarante la famiglia di Aaron, profondamente segnata dallo spirito ungherese, così come gli amici (che sono un gruppo di amici del regista, a dimostrazione che un film a budget ridotto può dare risultati sorprendenti).

Aaron è a tratti silenzioso e impenetrabile, a tratti percorso da una logorrea nevrotica che a molti ha ricordato Woody Allen. In entrambi i casi, lo spettatore riesce ad appassionarsi al suo essere tremendamente goffo.

Originali e degni di attenzione i titoli di coda, una carrellata di tutti coloro che hanno preso parte al film. Meritato il Premio Speciale della Giuria e Premio del Pubblico al Torino Film Festival.

 

Diversità di genere nell’elaborazione del lutto

Elisabetta Gatto

 

In The disappearence of Eleonor Rigby: Him/The disappearence of Eleonor Rigby: Her di Ned Benson, presentato al TFF 2014, una giovane coppia è alle prese con una tragedia: diverso il modo di elaborare il lutto da parte dell’uomo e della donna, tanto da suggerire al regista due film gemelli che integrano la prospettiva di Eleonor con il punto di vista della stessa storia da parte di Conor.  

Nella versione maschile giocano un ruolo cruciale il migliore amico di Conor e suo padre, in quella femminile la sorella di Eleonor e la sua insegnante. “Him” è incentrato sulla volontà di reagire, di riprendere in mano la propria vita e di ricominciare da dove la storia si è spezzata; è quasi un elogio alla rimozione come arma per preservare se stessi e il presente. “Her” dà maggior spazio all’introspezione – come ci si potrebbe immaginare –, ma anche al sorriso – meno scontato – e all’immersione totale in ciò che è successo.

Una ferita da curare insieme per Conor, un dolore troppo grande per poterlo condividere per lei. Ma anche attimi, immagini, interpretazioni profondamente diverse della loro storia d’amore, rese con delicatezza dai due straordinari protagonisti, James McAvoy e Jessica Chastain.

Non accade nulla di straordinario, non ci sono colpi di scena: in scena c’è la vita, con tutta la sua ordinarietà, le parole dette e quelle trattenute.

La sceneggiatura è meticolosa, gli eventi chiave sono resi con un’attenzione alla specularità dei punti di vista, che sottende un messaggio: la realtà è quella che crediamo che sia.

 

Miti e aspettative della genitorialità

Elisabetta Gatto

 

En chance til/ A second chance di Susanne Bier, presentato al TFF 2014, è una grande prova per Susanne Bier, premio Oscar per il miglior film straniero con “In un mondo migliore”. Non un noir, né un thriller, ma un dramma, come lo ha definito la regista stessa, in cui si mescolano errore e giustizia, bene e male, verità e menzogna. Due famiglie, due contesti sociali, due storie speculari: Andreas, poliziotto integerrimo, e sua moglie Anne hanno da poco avuto un bambino, così come Tristan e Sanne, una coppia di tossicodipendenti, evidentemente incapaci di prendersi cura del neonato. Un intervento di Andreas nel loro appartamento li fa incontrare: questo il punto di partenza di una catena di eventi inarrestabile, di decisioni difficili da prendere, di esiti inaspettati.

Atmosfere nordiche per questo film che mette tutti in discussione, spettatori compresi. Il grande dilemma sotteso è: chi può arrogarsi il diritto di dirsi un buon genitore? Egoismo e presunzione, ma anche insicurezza e fragilità muovono le scelte dei protagonisti, ciascuno impegnato ad agire nell’ottica di ciò che è meglio per sé. Una riflessione disincantata sulla genitorialità, che tratta con spietato realismo l’evento che più di ogni altro è costellato di falsi miti e aspettative irrealizzabili.

Mirafiori, favola metropolitana senza lieto fine

Elisabetta Gatto

 

Mirafiori Luna Park di Stefano Di Polito: per il pubblico torinese del Torino Film Festival, dove l’opera è stata presentata, Mirafiori è molto più del più grande degli stabilimenti industriali Fiat. È un nome che evoca un quartiere popolare nell’accezione più ampia, una periferia a lungo trascurata, le lotte operaie, la cittadinanza attiva.

Con questo film Stefano Di Polito suggerisce questa lettura anche a chi torinese non è. Più che dell’apologia del lavoro manuale o dell’etica della fabbrica, si parla della riconversione di luoghi che sono stati in passato “il posto nel mondo” di qualcuno. Mirafiori per Carlo, Franco e Delfino (interpretati da Giorgio Colangeli, Alessandro Haber e Antonio Catania) non è solo l’officina, dove hanno trascorso buona parte della loro esistenza, è quasi uno stile di vita, è ciò che dà concretezza ai sogni, è il ritrovo degli amici, “è una famiglia”.

Per questa ragione, una volta raggiunta la pensione, decidono “riappropriarsi” di quella fabbrica, diventata un luogo senza anima, e riscattarla dal degrado e dall’abbandono a cui l’improduttività l’ha costretta. Dapprima con gli orti urbani, poi con l’idea – non senza ostacoli – di trasformarla in un Luna Park per i cittadini del quartiere.

Alle storie familiari dei tre colleghi e amici si intrecciano temi radicati nel presente: lo scontro tra padroni e operai si è ramificato in una guerra tra poveri, dove i precari avvertono gli operai come classe privilegiata, perchè un contratto di lavoro lo hanno sempre avuto.

A scandire il ritorno al passato e l’amarcord dei protagonisti, molte immagini di repertorio degli archivi dell’Istituto Luce e delle Teche Rai, oltre a frammenti di filmini degli anni Settanta. Non solo: ci sono i simboli di un’epoca, dalla Fiat 131, alla catena di montaggio, alla gavetta con il pranzo degli operai.

Un film che ha il tono dolceamaro di una fiaba metropolitana di cui non è certo il lieto fine.

Due outsider in cerca di evasione

Elisabetta Gatto

 

Félix & Meira di Maxime Giroux mette in scena la storia di due outsider, entrambi incapaci di accettare le regole imposte dai rispettivi microcosmi.

Félix decide di non conformarsi all’idea di futuro che il padre, ricchissimo, aveva in mente per lui. Ancora più soffocata dall’obbedienza a norme che non sente sue è Meira, che vive in una comunità di ebrei chassidici a Montréal con il marito, rigido ed estremamente esigente, e una figlia piccola. Eccentrica per gli altri membri della comunità, si rifugia nella musica soul e in piccole “disobbedienze”. Fino a quando incontra Felix: l’uno per l’altra diventano la concretizzazione del desiderio di evadere. Molto raffinati i simboli di questa condizione: la trappola per topi per identificare lo stato d’animo di Meira nella sua casa-prigione, i jeans che sceglie di indossare per provare a mettersi “nei panni di” una donna più libera.

Félix rappresenta per lei una nuova possibilità, Meira per lui un porto sicuro.

Si scoprono, si sfiorano, si aggrappano l’uno all’altra. È una storia sospesa: allo spettatore non è dato di conoscere quanto si avvicineranno. Anche il giudizio è sospeso: gli anti-eroi, come il marito di Meira e il padre di Félix, hanno la loro occasione di riscatto.

Al Torino Film Festival, Premio per la miglior attrice a Hads Yaron nei panni di Meira (ex aequo con Sidse Babett Knudsen in “The Duke of Burgundy”) e Premio per il miglior attore a Luzer Twersky nei panni del marito.

Una valanga sulla quiete svedese

Elisabetta Gatto

 

In Turist/Force Majeure di Ruben Östlund la protagonista, più che scenario, è una montagna terrifica, che fa paura e scuote.

La storia si snoda lungo un arco temporale di cinque giornate, scandite da altrettante sequenze: sono i giorni di vacanza che una famiglia svedese apparentemente serena si è concessa sulle Alpi francesi.

Ma si avverte da alcuni suoni inquietanti – il rumore meccanico dei cannoni da neve, il cigolio degli impianti di risalita – che la quiete è solo temporanea.

La coppia e i loro due bambini, scampati alla minaccia di una valanga artificiale, che ha rischiato di sommergerli mentre stavano pranzando sulla terrazza di uno chalet sulle piste, più faticosamente emergeranno dalla valanga metaforica di accuse, insinuazioni e incoerenze che quell’evento ha prodotto. L’effetto della valanga sulle dinamiche familiari è quello di uno sconvolgimento tanto inatteso quanto profondo.

In un cortocircuito di pensieri che ricorda a tratti Carnage di Polański, la coppia sperimenterà che l’unico modo per superare la crisi è immergersi e starci dentro fino al collo.

Bianchi, vuoti e silenzi sono perfettamente dosati come elementi di design in un arredo.

Il film è stato selezionato per rappresentare la Svezia come miglior film straniero ai prossimi premi Oscar.

 

Arriva l’anti-cinepanettone

Elisabettta Gatto

 

Ogni maledetto Natale di Giacomo Ciarrapico, Mattia Torre e Luca Vendruscolo è l’anti-commedia di Natale – o meglio commedia sul Natale – che per suscitare il riso non attinge al repertorio sessuale o gastrointestinale, piuttosto all’ironia studiata che spiazza perché mette in campo e ridicolizza le manie di ciascuno di noi.

È la storia più vecchia del mondo: due giovani innamorati ostacolati dalle differenze di classe, upper-class e ricchissimo lui, di famiglia popolare e grossolana – per usare un eufemismo – lei.

Ciò che diverte è l’enfasi sugli stereotipi e i cliché dei due diversi ambienti che mette in luce le rispettive ipocrisie.

Gli interpreti sono gli stessi, cambiati d’abito, per entrambi i contesti familiari.

Così la cena della vigilia è ambientata in un cascinale a Cucuja, un luogo di fantasia sperduto nella campagna viterberse, dove il malcapitato Massimo (Alessandro Cattelan) è introdotto ai rituali della famiglia: dalla caccia al cinghiale a un gioco di carte senza alcuna logica per gli outsider, all’uso spropositato dei fucili, alla sbornia con grappa casalinga. I parenti di Giulia (Alessandra Mastronardi) sono rozzi, stentano a fare una conversazione in italiano, il loro universo di riferimento si esaurisce nel perimetro del paesello – o meglio sono quella terra –, hanno un rispetto cieco delle tradizioni familiari. Dopo una serata in cui, per una serie di equivoci e il gioco delle parti, capita di tutto, si cambia atmosfera con il pranzo di Natale a casa della famiglia di Massimo in un palazzo affrescato nel centro di Roma. Immancabili i domestici filippini, la beneficienza per i bisognosi, una figlia mitomane, una madre nevrotica ossessionata dall’etichetta.

Divertentissimi, in particolare, Corrado Guzzanti nei panni del maggiordomo filippino e Valerio Mastandrea in quelli del fratello zotico di Giulia e del fratello di Massimo con deriva da fondamentalista cattolico.

Splendida Laura Morante sia nei panni della madre di Giulia, austera e “provata dalla vita”, sia in quelli della madre di Massimo, donna tanto borghese quanto svampita.

Protagonista assoluto è il Natale, in origine festa delle tenebre, prima della sua trasformazione in festa della luce con l’avvento del Cristianesimo. E proprio le sue radici come tempo cupo e “maledetto” sarebbero la ragione degli ostacoli che si frappongono ai due innamorati per coronare la loro storia d’amore.

Con ironia e a tratti cinismo – non dimentichiamo che gli autori sono gli stessi di “Boris” – il film rivela che dietro il motto “a Natale siamo tutti più buoni” si nascondono le fragilità, i compromessi e le verità imbarazzanti che ciascuna famiglia procura bene di celare.