La Giornata della Terra e le radici storiche dell’ambientalismo

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Il 22 aprile del 1970 si celebrò il primo Earth Day (Giornata della Terra): da allora è diventato un appuntamento annuale per gli ambientalisti di tutto il mondo, organizzati nel movimento dell’Earth Day Network, attivo nel fare pressione sui governi per realizzare delle politiche che favoriscano lo sviluppo durevole e sostenibile. 

 L’Earth Day Network nacque grazie a Gaylord Nelson, un senatore democratico del Wisconsin. Fu lui a mobilitare 20 milioni di americani per la gigantesca dimostrazione in favore dell’ambiente del 1970.

Fu l’avvio del moderno movimento ambientalista statunitense che avrebbe portato all’introduzione del Clean Act, la legge sugli standard di qualità dell’aria e la creazione dell’Environmental Protection Agency. Era un periodo di grandi fermenti in campo ambientale: la biologa marina Rachel Carson (a lei è dedicato il tema di .eco n. 182) aveva scosso il mondo da poco con il suo libro Primavera silenziosa, dove dipingeva gli effetti devastanti dei pesticidi e delle sostanze chimiche sulla natura e sull’equilibrio della terra. Cominciavano le attività di Greenpeace, con David Mc Taggart che nel 1972 fece la sua prima battaglia ambientalista. In Europa nei primi anni Settanta venne fondato il Club di Roma, seguito dalla nascita del World Watch Institute di Lester Brown.

Un percorso iniziato negli anni Settanta.
L’ecologia nel suo risvolto politico apparve sulla scena internazionale negli anni Sessanta del secolo scorso, dopo due secoli in cui ne venne preparato il terreno. Gli ecologisti emersero in questo panorama come i custodi della vita fragile. Durante la celebrazione della Giornata della terra nel 1970, nacque la definizione “Era dell’ecologia”, che esprimeva fiducia nel fatto che la scienza avrebbe messo a punto un programma per la sopravvivenza del pianeta. Gli scienziati assunsero in quel momento un ruolo importante perché sembrava che essi avessero potere di vita e di morte, i fisici in particolare, che avevano creato l’arma più terribile della storia dell’uomo: la bomba atomica. Negli anni successivi alla creazione e alla sperimentazione della bomba atomica, aumentò la preoccupazione degli scienziati stessi sulle conseguenze di quella scoperta. La tecnologia metteva di fatto l’uomo nella possibilità di distruggere la vita sul pianeta. La bomba gettava, per la prima volta, seri dubbi sul progetto di dominio della natura che sembrava alla base della storia moderna, e soprattutto sulla legittimità morale della scienza.
Si trattò di un dibattito partito dalla grossa comunità che aveva realizzato il Progetto Manhattan e che non riguardò unicamente il mondo scientifico.
Ma a parte i travagli e la crisi morale di Oppenheimer, direttore del progetto, e la presa di distanza di Einstein, che ne aveva caldeggiato con Roosvelt il decollo, agli altri non importava, tanto che, Edward Teller in testa (e russi dall’altra parte), si lanciarono a capofitto per realizzare la Bomba H (1950). All’esterno, letterati, intellettuali e popolo rimasero accecati dall’ingegno umano e, in un sostanziale processo di rozza e/o inconsapevole separazione tra scienza e suo uso.

La preoccupazione per un olocausto nucleare.
Le critiche furono così poche da dimostrare che la scienza quasi mai va sotto accusa nei tempi moderni, a meno che non pratichi sentieri che evocano l’olocausto. All’ombra delle minacce apocalittiche della nuova scienza, cominciò a prendere forma una forte coscienza morale chiamata ambientalismo, il cui scopo consisteva nell’utilizzare gli insegnamenti dell’ecologia per limitare l’uso del potere moderno sulla natura fondato sulla scienza. Questo movimento nacque negli Stati Uniti, dove era iniziata l’era nucleare e dove gli scienziati stavano cominciando a studiare gli effetti ambientali delle radiazioni. Alla metà degli anni Cinquanta le riviste nazionali riportavano continuamente racconti sulla bomba atomica, dalla sua produzione alla sua sperimentazione, al suo impatto sulla terra e nell’aria e gli effetti delle piogge radioattive cominciarono a preoccupare diffusamente il mondo scientifico americano.
Nel 1958 a St. Louis venne creato il Comitato per l’Informazione Nucleare allo scopo di svelare il programma governativo sugli armamenti e di mettere in guardia i cittadini circa il pericolo di nuovi esperimenti nucleari e dell’energia atomica. Del Comitato faceva parte anche il biologo ed economista Barry Commoner, esponente di spicco del crescente movimento ambientalista. Un numero sempre maggiore di scienziati si unì a questa campagna d’informazione e protesta, che creò un importante precedente per gli scienziati che incominciarono a occuparsi di politica, di mobilitazione dell’opinione pubblica e che auspicarono una nuova etica nei confronti della natura. Rachel Carson fu tra le maggiori sostenitrici di questa nuova strada intrapresa dal mondo della scienza – lavorò a lungo per il Dipartimento Statunitense per la Pesca – e aderì con convinzione al movimento ambientalista, diventando di fatto la prima esponente dell’ambientalismo scientifico.

Dal rifugio personale all’impegno pubblico.
All’inizio dello scorso secolo la parola “ambiente” si riferiva alle influenze sociali esterne che agivano sull’individuo in opposizione al patrimonio genetico. Ambientalismo implicava la fiducia nel fatto che l’ambiente fisico, psicologico, culturale determinasse il comportamento degli animali, compreso l’uomo. Ma dal momento in cui, dopo la seconda guerra mondiale, la relazione ambiente versus eredità perse importanza, l’ambiente venne a significare soprattutto le condizioni naturali che influenzavano le persone, tra le quali la flora, la fauna, il clima, l’acqua, il suolo. Era ormai chiaro come gli esseri umani non fossero vittime passive dell’ambiente, ma piuttosto interagissero con esso e producessero degli effetti su di esso. Quindi “ambientalista” divenne colui che si preoccupava di preservare l’ambiente biofisico dall’azione degradante dell’uomo.
Negli ultimi due secoli il mondo tecnologico aveva fatto passi avanti, spesso con la presunzione di sostituirsi al mondo naturale.
Ora gli ambientalisti mostravano come per sopravvivere l’uomo avesse bisogno di proteggere la natura, senza la quale era impossibile la presenza del genere umano sul pianeta. L’ambiente naturale si rivelava una comunità vasta e complessa, un sistema di connessioni e interscambi dal quale gli esseri umani dipendono.
I nuovi ambientalisti non apparvero senza precedenti o preparazione intellettuale; essi pagarono il loro tributo verso personaggi del XIX secolo, quali Henry Thoreau, Ralph Waldo Emerson, Herman Melville con il suo Moby Dick, che avevano celebrato la natura selvaggia e avevano cercato di stabilire un rapporto diretto con il mondo non umano. Ma nella realtà contemporanea non era più possibile, né poteva essere sufficiente, quel genere di ricerca privata; l’ambientalismo non era più un rifugio personale, bensì un impegno dichiaratamente pubblico.

Un rapporto imprescindibile tra uomo e natura.
La nascita di un rinnovato interesse per la questione ambientale dipendeva in gran parte dal lavoro di alcuni pensatori relativamente sconosciuti, per lo più accademici in settori quali l’ecologia e la geografia. Essi furono i primi a concepire l’ambiente come un insieme di rapporti integrati tra gli esseri umani e il resto della natura.
Aldo Leopold fu un personaggio particolarmente importante in questa corrente di pensiero, in quanto contribuì alla divulgazione di una visione ecologica con la sua raccolta di saggi A Sand County Almanac, scritta nel 1949, che introdusse molti profani alla scienza dell’ecologia. Un altro importante contributo fu quello di Paul Sears, botanico e presidente del Programma per la salvaguardia ambientale dell’Università di Yale. Egli studiò l’impatto globale della crescita della popolazione umana, l’intensificazione dello sfruttamento del suolo e l’inquinamento dell’aria e dell’acqua nelle zone industriali, e nel corso della sua analisi notò che gli Stati Uniti, con meno di un decimo della popolazione mondiale, consumavano più della metà della produzione minerale globale. Il lavoro di Sears è un’esplicita dichiarazione di dipendenza: l’uomo dipende da altri organismi, sia per gli immediati mezzi di sussistenza, sia per il mantenimento di un habitat che gli garantisca la sopravvivenza. Sears non si definì un ambientalista, ma sicuramente i suoi studi e le sue preoccupazioni per l’ambiente forniscono un sostrato di concetti indispensabili per l’ambientalismo.

La Terra come navicella spaziale.
Negli stessi anni Howard Thomas Odum produceva i primi modelli matematici che tentavano di rappresentare cicli bio-economici sostenibili; Gregory Bateson, partendo dagli studi antropologici condotti negli anni Trenta con Margareth Meadows, estendeva le sue ricerche ai comportamenti sociali e alla biologia lungo un percorso che avrebbe avuto come esito il suo testo più famoso Per un’ecologia della mente. A metà degli anni Sessanta il breve saggio di Kenneth Boulding A spaceship earth (1966), apre la critica al modello, dominante negli States ma non solo, dell’“economia del cow boy” e sottolinea l’esigenza che, invece di piegarsi al feticcio del PIL, l’economia debba misurarsi col problema globale delle risorse limitate e della loro gestione: la Terra come navicella spaziale, appunto.
“Space ship Earth” è stata la parola d’ordine della prima Giornata Mondiale della Terra, il 22 aprile 1970. Alcuni anni dopo Nicholas Georgescu-Rögen tentava di formulare le leggi dell’economia inquadrandola all’interno dei principi della termodinamica, per tenere meglio conto dell’erosione delle risorse naturali (1971). Analoghe ricerche proponeva alla fine degli anni Settanta la “scuola di Bruxelles”, guidata dal Nobel per la chimica, Ilya Prigogine e da Isabelle Stengers. Le stesse discipline più strettamente scientifiche, come la biologia, venivano attraversate dal vento dei “nuovi biologi” – Humberto Maturana, Francisco Varela, Lynn Margulis – riuniti, insieme a Bateson e ad altri eminenti scienziati ambientalisti, nella “Thompson Fellowship”. Sui passi di Georgescu-Rögen procedeva l’economista Herman Daly, che proponeva uno “stato stazionario” (1980) come obiettivo globale di uno sviluppo economico sostenibile.

Quando gli ingranaggi non cambiano.
In definitiva ciò che l’ambientalismo aggiunse al fermento scientifico fu un senso di urgenza che confinava con timori apocalittici; lo spettro della morte si aggirava per il mondo, minacciando la fine della natura. Secondo le analisi scientifiche ed economiche attente ai problemi dell’ambiente, un’economia che si espande in costante progressione geometrica, utilizzando sempre più risorse, si scontrerà ben presto con i limiti del pianeta. L’ambiente non è un semplice magazzino di beni materiali, né un complesso di cose da utilizzare. In questo senso, gli ambientalisti si trovavano di fronte ad atteggiamenti profondamente radicati tra gli economisti tradizionali, i grandi industriali, gli uomini politici e gran parte dell’opinione pubblica sulle virtù della crescita economica. Tali atteggiamenti erano – e lo sono tutt’ora – così forti e difficili da eliminare perché alla base del sistema economico operante e della moderna cultura materialista. E le difficoltà di condurre delle politiche ambientali efficaci sono collegate strettamente al sistema economico che governa il mondo moderno, anche perché sempre più il termine “politiche ambientali” assume caratteri riduttivi se si pensa che oggi a esse sono sottese le più significative modificazioni delle strutture produttive, economiche e sociali.
A partire dal dopoguerra si posero dunque le basi, nel mondo scientifico ma non solo, per una radicale presa di coscienza circa le tematiche ambientali che negli anni Settanta ha significato, per molti ambientalisti, il rifiuto di un insieme di valori associati alla nascita della società borghese e della visione globale dominata dalla tecnologia, dalla produzione e dai consumi illimitati, votata all’individualismo e al dominio sulla natura. In quegli anni si credette che il tempo di questa cultura fosse scaduto e che una rivoluzione culturale fosse possibile. Di fatto, oggi la società si trova intrappolata nei medesimi ingranaggi, con le aggravanti di sempre più grandi e incolmabili divari nelle società umane e il progredire certo non lento della malattia del pianeta.

Aurelio Angelini
22 aprile 2013

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