Mirafiori, favola metropolitana senza lieto fine

Elisabetta Gatto

 

Mirafiori Luna Park di Stefano Di Polito: per il pubblico torinese del Torino Film Festival, dove l’opera è stata presentata, Mirafiori è molto più del più grande degli stabilimenti industriali Fiat. È un nome che evoca un quartiere popolare nell’accezione più ampia, una periferia a lungo trascurata, le lotte operaie, la cittadinanza attiva.

Con questo film Stefano Di Polito suggerisce questa lettura anche a chi torinese non è. Più che dell’apologia del lavoro manuale o dell’etica della fabbrica, si parla della riconversione di luoghi che sono stati in passato “il posto nel mondo” di qualcuno. Mirafiori per Carlo, Franco e Delfino (interpretati da Giorgio Colangeli, Alessandro Haber e Antonio Catania) non è solo l’officina, dove hanno trascorso buona parte della loro esistenza, è quasi uno stile di vita, è ciò che dà concretezza ai sogni, è il ritrovo degli amici, “è una famiglia”.

Per questa ragione, una volta raggiunta la pensione, decidono “riappropriarsi” di quella fabbrica, diventata un luogo senza anima, e riscattarla dal degrado e dall’abbandono a cui l’improduttività l’ha costretta. Dapprima con gli orti urbani, poi con l’idea – non senza ostacoli – di trasformarla in un Luna Park per i cittadini del quartiere.

Alle storie familiari dei tre colleghi e amici si intrecciano temi radicati nel presente: lo scontro tra padroni e operai si è ramificato in una guerra tra poveri, dove i precari avvertono gli operai come classe privilegiata, perchè un contratto di lavoro lo hanno sempre avuto.

A scandire il ritorno al passato e l’amarcord dei protagonisti, molte immagini di repertorio degli archivi dell’Istituto Luce e delle Teche Rai, oltre a frammenti di filmini degli anni Settanta. Non solo: ci sono i simboli di un’epoca, dalla Fiat 131, alla catena di montaggio, alla gavetta con il pranzo degli operai.

Un film che ha il tono dolceamaro di una fiaba metropolitana di cui non è certo il lieto fine.

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