Un esilarante Woody Allen ungherese

Elisabetta Gatto

 

For some inexplicable reason di Gábor Reisz è uno dei molti interessanti film presentati al TFF 2014.

Cosa lascia dietro di sè una relazione che finisce? Cosa si porta via chi ci abbandona? “Persino i suoi capelli dallo scarico del lavandino”, lamenta Aaron, trentenne, in preda alla nostalgia per la sua storia d’amore appena conclusa. Ovvero scopre di sentire la mancanza anche di quello che odiava o più lo esasperava. Vagando per le vie della sua città, Budapest, prova a scrivere il copione della sua vita, proprio come se si trattasse di un film. Ma c’è tempo per iniziare: “Oggi è domenica, domani è lunedì. Comincerò domani”. Per nulla aderente alla realtà – curioso il dettaglio delle scarpe e della sua andatura staccata da terra, come se stesse volando –, per i suoi genitori è inconcludente, per gli amici un ragazzo impacciato che ha bisogno di sciogliersi. Il giorno del suo compleanno, complice qualche bicchiere di troppo, compra senza pensarci su un costosissimo biglietto aereo per Lisbona. Che sia finalmente quella l’occasione per voltare pagina?

A tratti surreale (si pensi alla scena del cavo elettrico infinitamente lungo o a quella della telefonata interminabile), è un film molto divertente che racconta la generazione dei trentenni che sono alle prese con la difficoltà di tradurre in un lavoro gli studi compiuti e con il sogno di non rinunciarci. Esilarante la famiglia di Aaron, profondamente segnata dallo spirito ungherese, così come gli amici (che sono un gruppo di amici del regista, a dimostrazione che un film a budget ridotto può dare risultati sorprendenti).

Aaron è a tratti silenzioso e impenetrabile, a tratti percorso da una logorrea nevrotica che a molti ha ricordato Woody Allen. In entrambi i casi, lo spettatore riesce ad appassionarsi al suo essere tremendamente goffo.

Originali e degni di attenzione i titoli di coda, una carrellata di tutti coloro che hanno preso parte al film. Meritato il Premio Speciale della Giuria e Premio del Pubblico al Torino Film Festival.

 

Diversità di genere nell’elaborazione del lutto

Elisabetta Gatto

 

In The disappearence of Eleonor Rigby: Him/The disappearence of Eleonor Rigby: Her di Ned Benson, presentato al TFF 2014, una giovane coppia è alle prese con una tragedia: diverso il modo di elaborare il lutto da parte dell’uomo e della donna, tanto da suggerire al regista due film gemelli che integrano la prospettiva di Eleonor con il punto di vista della stessa storia da parte di Conor.  

Nella versione maschile giocano un ruolo cruciale il migliore amico di Conor e suo padre, in quella femminile la sorella di Eleonor e la sua insegnante. “Him” è incentrato sulla volontà di reagire, di riprendere in mano la propria vita e di ricominciare da dove la storia si è spezzata; è quasi un elogio alla rimozione come arma per preservare se stessi e il presente. “Her” dà maggior spazio all’introspezione – come ci si potrebbe immaginare –, ma anche al sorriso – meno scontato – e all’immersione totale in ciò che è successo.

Una ferita da curare insieme per Conor, un dolore troppo grande per poterlo condividere per lei. Ma anche attimi, immagini, interpretazioni profondamente diverse della loro storia d’amore, rese con delicatezza dai due straordinari protagonisti, James McAvoy e Jessica Chastain.

Non accade nulla di straordinario, non ci sono colpi di scena: in scena c’è la vita, con tutta la sua ordinarietà, le parole dette e quelle trattenute.

La sceneggiatura è meticolosa, gli eventi chiave sono resi con un’attenzione alla specularità dei punti di vista, che sottende un messaggio: la realtà è quella che crediamo che sia.

 

Miti e aspettative della genitorialità

Elisabetta Gatto

 

En chance til/ A second chance di Susanne Bier, presentato al TFF 2014, è una grande prova per Susanne Bier, premio Oscar per il miglior film straniero con “In un mondo migliore”. Non un noir, né un thriller, ma un dramma, come lo ha definito la regista stessa, in cui si mescolano errore e giustizia, bene e male, verità e menzogna. Due famiglie, due contesti sociali, due storie speculari: Andreas, poliziotto integerrimo, e sua moglie Anne hanno da poco avuto un bambino, così come Tristan e Sanne, una coppia di tossicodipendenti, evidentemente incapaci di prendersi cura del neonato. Un intervento di Andreas nel loro appartamento li fa incontrare: questo il punto di partenza di una catena di eventi inarrestabile, di decisioni difficili da prendere, di esiti inaspettati.

Atmosfere nordiche per questo film che mette tutti in discussione, spettatori compresi. Il grande dilemma sotteso è: chi può arrogarsi il diritto di dirsi un buon genitore? Egoismo e presunzione, ma anche insicurezza e fragilità muovono le scelte dei protagonisti, ciascuno impegnato ad agire nell’ottica di ciò che è meglio per sé. Una riflessione disincantata sulla genitorialità, che tratta con spietato realismo l’evento che più di ogni altro è costellato di falsi miti e aspettative irrealizzabili.

Mirafiori, favola metropolitana senza lieto fine

Elisabetta Gatto

 

Mirafiori Luna Park di Stefano Di Polito: per il pubblico torinese del Torino Film Festival, dove l’opera è stata presentata, Mirafiori è molto più del più grande degli stabilimenti industriali Fiat. È un nome che evoca un quartiere popolare nell’accezione più ampia, una periferia a lungo trascurata, le lotte operaie, la cittadinanza attiva.

Con questo film Stefano Di Polito suggerisce questa lettura anche a chi torinese non è. Più che dell’apologia del lavoro manuale o dell’etica della fabbrica, si parla della riconversione di luoghi che sono stati in passato “il posto nel mondo” di qualcuno. Mirafiori per Carlo, Franco e Delfino (interpretati da Giorgio Colangeli, Alessandro Haber e Antonio Catania) non è solo l’officina, dove hanno trascorso buona parte della loro esistenza, è quasi uno stile di vita, è ciò che dà concretezza ai sogni, è il ritrovo degli amici, “è una famiglia”.

Per questa ragione, una volta raggiunta la pensione, decidono “riappropriarsi” di quella fabbrica, diventata un luogo senza anima, e riscattarla dal degrado e dall’abbandono a cui l’improduttività l’ha costretta. Dapprima con gli orti urbani, poi con l’idea – non senza ostacoli – di trasformarla in un Luna Park per i cittadini del quartiere.

Alle storie familiari dei tre colleghi e amici si intrecciano temi radicati nel presente: lo scontro tra padroni e operai si è ramificato in una guerra tra poveri, dove i precari avvertono gli operai come classe privilegiata, perchè un contratto di lavoro lo hanno sempre avuto.

A scandire il ritorno al passato e l’amarcord dei protagonisti, molte immagini di repertorio degli archivi dell’Istituto Luce e delle Teche Rai, oltre a frammenti di filmini degli anni Settanta. Non solo: ci sono i simboli di un’epoca, dalla Fiat 131, alla catena di montaggio, alla gavetta con il pranzo degli operai.

Un film che ha il tono dolceamaro di una fiaba metropolitana di cui non è certo il lieto fine.

Due outsider in cerca di evasione

Elisabetta Gatto

 

Félix & Meira di Maxime Giroux mette in scena la storia di due outsider, entrambi incapaci di accettare le regole imposte dai rispettivi microcosmi.

Félix decide di non conformarsi all’idea di futuro che il padre, ricchissimo, aveva in mente per lui. Ancora più soffocata dall’obbedienza a norme che non sente sue è Meira, che vive in una comunità di ebrei chassidici a Montréal con il marito, rigido ed estremamente esigente, e una figlia piccola. Eccentrica per gli altri membri della comunità, si rifugia nella musica soul e in piccole “disobbedienze”. Fino a quando incontra Felix: l’uno per l’altra diventano la concretizzazione del desiderio di evadere. Molto raffinati i simboli di questa condizione: la trappola per topi per identificare lo stato d’animo di Meira nella sua casa-prigione, i jeans che sceglie di indossare per provare a mettersi “nei panni di” una donna più libera.

Félix rappresenta per lei una nuova possibilità, Meira per lui un porto sicuro.

Si scoprono, si sfiorano, si aggrappano l’uno all’altra. È una storia sospesa: allo spettatore non è dato di conoscere quanto si avvicineranno. Anche il giudizio è sospeso: gli anti-eroi, come il marito di Meira e il padre di Félix, hanno la loro occasione di riscatto.

Al Torino Film Festival, Premio per la miglior attrice a Hads Yaron nei panni di Meira (ex aequo con Sidse Babett Knudsen in “The Duke of Burgundy”) e Premio per il miglior attore a Luzer Twersky nei panni del marito.

Una valanga sulla quiete svedese

Elisabetta Gatto

 

In Turist/Force Majeure di Ruben Östlund la protagonista, più che scenario, è una montagna terrifica, che fa paura e scuote.

La storia si snoda lungo un arco temporale di cinque giornate, scandite da altrettante sequenze: sono i giorni di vacanza che una famiglia svedese apparentemente serena si è concessa sulle Alpi francesi.

Ma si avverte da alcuni suoni inquietanti – il rumore meccanico dei cannoni da neve, il cigolio degli impianti di risalita – che la quiete è solo temporanea.

La coppia e i loro due bambini, scampati alla minaccia di una valanga artificiale, che ha rischiato di sommergerli mentre stavano pranzando sulla terrazza di uno chalet sulle piste, più faticosamente emergeranno dalla valanga metaforica di accuse, insinuazioni e incoerenze che quell’evento ha prodotto. L’effetto della valanga sulle dinamiche familiari è quello di uno sconvolgimento tanto inatteso quanto profondo.

In un cortocircuito di pensieri che ricorda a tratti Carnage di Polański, la coppia sperimenterà che l’unico modo per superare la crisi è immergersi e starci dentro fino al collo.

Bianchi, vuoti e silenzi sono perfettamente dosati come elementi di design in un arredo.

Il film è stato selezionato per rappresentare la Svezia come miglior film straniero ai prossimi premi Oscar.

 

Mondo dei rom, duro e amaro

Elisabetta Gatto

 

In Mange tes morts di Jean-Charles Hue non sono le atmosfere gitane e balcaniche alla Kusturica a caratterizzare questo road movie, piuttosto uno spaccato crudo e amaro delle relazioni in un campo rom.

Tra cristianesimo pop e valori profondamente romanì, la kumpánia che si è insediata in una non precisata località francese si tiene in equilibrio tra tradizione e accettazione delle regole della società. Fino a quando non fa ritorno dal carcere, dove ha scontato quindici anni di detenzione per l’omicidio di un poliziotto, Fred, il maggiore di tre figli, oggi poco più che trentenne.

In barba alla funzione rieducativa del carcere, è pronto a riprendere il passato di delinquenza perché convinto che in fondo non si possa cambiare mai. Trova una giustificazione alla criminalità come arma contro la povertà: è stato costretto a diventare un ladro dalla necessità di procurare da vivere alla sua famiglia, quando è rimasto orfano, con due fratelli più piccoli e una madre malata.

Non sono passate ventiquattro ore e le porte del carcere potrebbero riaprirsi per lui dopo il tentativo di furto di rame – che è andato male, ma ha comunque lasciato sul tragitto una vittima.

Per il fratello minore Jason, dal soprannome altisonante di Jack (da Jack lo Squartatore) si profila un avvenire diverso, grazie all’intervento del cugino.

Sparatorie, inseguimenti della polizia, scorribande a tutto gas, furti di carburante, litigate e riappacificazioni ci portano al cuore della saga della famiglia Dorkel. La notte è il tempo del sovvertimento delle regole, della spericolatezza, della ribellione alle regole del mondo gagè, a cui non sentono e non vogliono appartenere.

L’indomani si apre con un battesimo, che più che segnare la conversione di Jason, è la possibilità di lavar via tutte le macchie del passato della sua famiglia. È un nuovo giorno, si può ricominciare tutto daccapo.

Perfettamente a suo agio il cast, formato da giovani rom che non sono attori professionisti, ma hanno un’incredibile presenza scenica.

 

Arriva l’anti-cinepanettone

Elisabettta Gatto

 

Ogni maledetto Natale di Giacomo Ciarrapico, Mattia Torre e Luca Vendruscolo è l’anti-commedia di Natale – o meglio commedia sul Natale – che per suscitare il riso non attinge al repertorio sessuale o gastrointestinale, piuttosto all’ironia studiata che spiazza perché mette in campo e ridicolizza le manie di ciascuno di noi.

È la storia più vecchia del mondo: due giovani innamorati ostacolati dalle differenze di classe, upper-class e ricchissimo lui, di famiglia popolare e grossolana – per usare un eufemismo – lei.

Ciò che diverte è l’enfasi sugli stereotipi e i cliché dei due diversi ambienti che mette in luce le rispettive ipocrisie.

Gli interpreti sono gli stessi, cambiati d’abito, per entrambi i contesti familiari.

Così la cena della vigilia è ambientata in un cascinale a Cucuja, un luogo di fantasia sperduto nella campagna viterberse, dove il malcapitato Massimo (Alessandro Cattelan) è introdotto ai rituali della famiglia: dalla caccia al cinghiale a un gioco di carte senza alcuna logica per gli outsider, all’uso spropositato dei fucili, alla sbornia con grappa casalinga. I parenti di Giulia (Alessandra Mastronardi) sono rozzi, stentano a fare una conversazione in italiano, il loro universo di riferimento si esaurisce nel perimetro del paesello – o meglio sono quella terra –, hanno un rispetto cieco delle tradizioni familiari. Dopo una serata in cui, per una serie di equivoci e il gioco delle parti, capita di tutto, si cambia atmosfera con il pranzo di Natale a casa della famiglia di Massimo in un palazzo affrescato nel centro di Roma. Immancabili i domestici filippini, la beneficienza per i bisognosi, una figlia mitomane, una madre nevrotica ossessionata dall’etichetta.

Divertentissimi, in particolare, Corrado Guzzanti nei panni del maggiordomo filippino e Valerio Mastandrea in quelli del fratello zotico di Giulia e del fratello di Massimo con deriva da fondamentalista cattolico.

Splendida Laura Morante sia nei panni della madre di Giulia, austera e “provata dalla vita”, sia in quelli della madre di Massimo, donna tanto borghese quanto svampita.

Protagonista assoluto è il Natale, in origine festa delle tenebre, prima della sua trasformazione in festa della luce con l’avvento del Cristianesimo. E proprio le sue radici come tempo cupo e “maledetto” sarebbero la ragione degli ostacoli che si frappongono ai due innamorati per coronare la loro storia d’amore.

Con ironia e a tratti cinismo – non dimentichiamo che gli autori sono gli stessi di “Boris” – il film rivela che dietro il motto “a Natale siamo tutti più buoni” si nascondono le fragilità, i compromessi e le verità imbarazzanti che ciascuna famiglia procura bene di celare.

 

Gang e forze speciali: stessa faccia stessa razza?

Elisabetta Gatto

 

The kings surrender di Philipp Leinemann è un noir metropolitano che mette a confronto il mondo delle bande giovanili dei sobborghi di una città tedesca con quello delle forze dell’ordine: lo scontro non è solo tra chi infrange la legge e chi è preposto a farla rispettare – e qui l’altra questione sollevata dal film: dove sta la giustizia? -, ma tra bande rivali, tra squadra mobile di polizia e forze speciali e all’interno di quest’ultime tra chi ammette ogni sorta di violenza per raggiungere la verità o meglio per compiere la propria vendetta e chi crede che un’altra soluzione sia possibile.

Il film è un crescendo di brutalità, le scene sono spietatamente crude, ci si immerge nel clima delle periferie per sentirne la solitudine delle vite ai margini. Lo stratega inconsapevole di una serie di eventi cruenti, un ragazzino tredicenne, è egli stesso vittima del degrado in cui è costretto a vivere e il motore che lo spinge ad agire è il desiderio di colmare il vuoto dell’abbandono con l’amicizia “estorta” al capo di una delle bande rivali.

Le scelte del giovane Nazim, a cui si intreccia il caso, innescano un concatenarsi di risse, omicidi, aggressioni nella caccia al colpevole che è sempre più sfuggente. Così come lo è la verità. Non ci sono eroi, solo uomini. E una donna, Nadine, una poliziotta, uno dei personggi più controversi.

Sia le gang di teppisti, sia i corpi speciali non lesinano nell’abuso della forza, nell’esaltazione dell’azione, nel delirio di onnipotenza con il pretesto di difendere l’onore ferito e vendicare i propri compagni. E quando Kevin, uno della squadra delle forze speciali, domanda al capo della polizia quale sia allora la differenza tra “noi” e “loro” la risposta con cui si chiude il cerchio è: “Noi possiamo”.

 

 

Parigi vista dagli Inuit

Elisabetta Gatto

 

Inupiluk di Sébastien Betbeder è un film in cui reportage etnografico e fiction si mescolano, dando una testimonianza inconsueta della visita a Parigi di due cacciatori inuit, originari di Kullorsuaq, un piccolo villaggio della Groenlandia. Olee e Adam sono due amici dell’esploratore francese Nicolas Dubreuil e suoi ospiti durante il primo viaggio fuori dalla loro comunità. L’occasione fornisce il pretesto per il loro coinvolgimento in qualità di protagonisti di un film a fianco di due attori professionisti, che interpretano due ragazzi parigini incaricati di accoglierli e di portarli in giro per la città.

Immortalati i tentativi goffi di interazione, a cominciare dall’imbarazzo al momento dell’incontro all’aeroporto, sigillato da lunghi convenevoli. Difficile comunicare senza una lingua condivisa: Olee e Adam parlano solo la lingua inuktitut. Indispensabile allora fare ricorso al linguaggio non verbale dei gesti e alla riproposizione di slogan: i ragazzi francesi, entrambi di nome Thomas, per aprire un varco nella comunicazione replicano una serie di stereotipi (“Cosa conoscete della Francia? Edith Piaf? Mireille Mathieu?”) pensando che siano universali e che coincidano con l’immagine che gli altri hanno del loro mondo.

Espresso desiderio di Olee e Adam era quello di visitare uno zoo per vedere dal vivo animali che avevano visto solo in fotografia e una foresta, perché non ne esistono in Groenlandia, e infine di fare un bagno nel mare. I due Thomas li esaudiscono e la convivenza tra i due mondi suggerisce occasioni uniche di dialogo e scambio, a tratti divertenti, a tratti poetiche.

Accompagnare i due nuovi amici a fare delle cose per la prima volta riporta i due Thomas all’infanzia, all’epoca della scoperta. E parallelamente anche per loro questi giorni sono un momento di scoperta e di sperimentazione di nuove forme di interazione. Hanno ad esempio l’idea di registrare le conversazioni per poi farle tradurre in francese e conservare memoria dell’esperienza.

È buffo come, profondamente “urbani”, guardino al mondo “naturale” incarnato da Olee e Adam come al regno della saggezza, caricando le loro espressioni di una profondità di pensiero anche quando essi vogliono comunicare una banalità!

Esempio ben riuscito di un genere che avvicina il documentario alla commedia.