L’impronta idrica delle nazioni

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Ambiente e politica si intrecciano nella nuova rubrica “Politiche dell’ambiente”, curata da Ugo Leone.

Acqua ce n’è dovunque, ma dovunque ce n’è sempre meno.

Acqua sulla Terra ce n’è tanta e ce n’è dovunque. Tuttavia si parla ricorrentemente di “emergenza idrica” e della possibilità, peraltro reale, che per la disponibilità di questa vitale risorsa si possano combattere più guerre di quante se ne siano combattute e se ne combattono per il petrolio. Ce n’è abbastanza per dire che l’acqua è un problema di geopolitica tanto da far coniare il neologismo “idropolitica”.
Eppure acqua ce n’è in abbondanza. Ed è tanta da poter soddisfare i bisogni di una popolazione planetaria numerosa come quella attuale e che cresce a ritmi ancora rapidi tendendo a stabilizzarsi, nel secolo, intorno a 9 miliardi di persone.

Una disponibilità solo teorica

Quello della quantità è un discorso di grandi numeri. Meglio: è un discorso di numeri sconfinati che si vanno progressivamente rimpicciolendo pur restando grandissimi.
Questa criptica affermazione può essere facilmente spiegata ricordando che l’acqua ricopre il 70% dei 510 milioni di chilometri quadrati che costituiscono la superficie terrestre. Ciò significa che, goccia più goccia meno, esistono sulla Terra 1.400 milioni di miliardi di metri cubi di acqua. Di questi, però, il 97% è costituito da mari ed oceani, cioè da acqua che contenendo in ogni litro 35 grammi di sali (prevalentemente cloruro di sodio) si definisce salata.
Solo una “piccola” parte – 40 milioni di miliardi di metri cubi – è costituita da acqua dolce la quale, però, per 30 milioni di miliardi di metri cubi è “ingabbiata” nei ghiacciai polari. Nel complesso l’acqua più o meno immediatamente disponibile per le esigenze umane, animali e vegetali (quella cioè rinvenibile nelle falde sotterranee sino a 750 metri di profondità, nei fiumi e nei laghi) è di circa 4,5 milioni di miliardi di metri cubi. Una quantità che è una percentuale irrisoria del totale dell’acqua esistente sulla Terra, ma che, in termini assoluti costituisce una disponibilità immensa. Si tratta, infatti, di 4.500.000.000.000.000.000 di litri (4,5 miliardi di miliardi di litri) teoricamente disponibili ogni anno. Poiché si calcola che gli abitanti della Terra sono sette miliardi e 500 milioni, una semplice serie di divisioni ci dice che ciascuno di noi dispone quotidianamente di circa 17.000 litri di acqua.
Se si pensa che nelle società più sprecone – l’Italia fra queste – si consumano 400 litri al giorno per abitante, si comprende meglio quali sono le reali dimensioni della questione.

Perché tanta gente muore di sete?

Ma, se le cose stanno così, perché tanta gente muore di sete?
La tradizionale risposta è che ciò avviene perché l’acqua non è equamente distribuita sulla Terra. Quindi la colpa sarebbe della cosiddetta “natura matrigna” che ha dato acqua abbondante ad alcuni e poco o nulla ad altri.
Anche questa risposta non è totalmente esatta. Infatti, se si osserva un planisfero e si cerca la distribuzione delle acque superficiali nei vari continenti si vede facilmente che fiumi e laghi di grandi dimensioni e portata esistono dovunque: a Nord come a Sud; nei paesi ricchi e in quelli poveri.
La maggior parte dell’acqua, circa l’80%, é concentrata in alcuni grandi laghi: il Baikal in Siberia, i Grandi Laghi nel Nord America e, in Africa, i laghi Tanganika e Nyasa e nei maggiori fiumi: il Rio delle Amazzoni, il Congo, il Mississippi-Missouri.
D’altra parte, se nel 1977, nel 1984, nel 2002 e in tutte le altre occasioni più o meno ufficiali in cui si è parlato di acqua si è sempre sottolineato l’impegno a portarne a chi non ce l’ha, vuol dire proprio che l’acqua c’è e dovunque.

Un problema non di ordine naturale, ma umano

Se è così il problema non è di ordine naturale, ma umano. E sta nella mancata adduzione dell’acqua. Cioè nella mancanza delle infrastrutture che captano l’acqua, la raccolgono, la potabilizzano e la portano nelle città, nei villaggi, nelle case.
Queste infrastrutture le costruiscono gli uomini, non la natura.
Il problema, dunque, è di ordine tecnico ed economico e, in quanto tale, più agevolmente risolvibile di quanto lo sarebbe se l’acqua mancasse del tutto. Ma poiché per costruire le infrastrutture occorrono soldi e le infrastrutture mancano prevalentemente nei paesi poveri, il problema si può risolvere solo con interventi dall’esterno. Interventi che alimentano quello che si chiama “affare dell’acqua”.
L’impegno periodicamente assunto di portare acqua a chi non ne ha richiede un grande sforzo economico e tecnico che coinvolge ricercatori, tecnici e capitali che proverranno, prevalentemente dal primo mondo. E con il considerevole sostegno della banca Mondiale degli Investimenti. Il tutto, evidentemente, in cambio di profitti.
Questo mi sembra un modo realisticamente corretto di impostare il “problema acqua”.

La mappa dell’impronta idrica

Ora, però, per dare ulteriori dimensioni, e realistiche dimensioni, al problema è intervenuto uno studio sul consumo idrico globale (The water footprint of humanity) di due ricercatori (Arjien Hoekstra e Mesfin Mekonnen) del Dipartimento di ingegneria e gestione delle acque dell’Università di Twente a Enschede in Olanda i quali hanno “mappato” con elevata risoluzione spaziale l’impronta idrica (o WF, water footprint) dell’umanità e i flussi virtuali di acqua fra le varie nazioni.
Il concetto di impronta idrica è stato sviluppato per la prima volta da John Anthony Allan del King’s College di Londra e prende in considerazione la quantità di acqua necessaria nel ciclo di vita di un prodotto. In sintesi l’impronta idrica è un indicatore che consente di calcolare i consumi di acqua, prendendo in considerazione non solo l’utilizzo diretto, ma anche quello indiretto di acqua. L’impronta idrica di un individuo, di una comunità, di un’azienda è definita come il volume totale di acqua dolce utilizzata per produrre i beni e i servizi consumati da quell’individuo, comunità o impresa. Si tratta, dunque, anche di un’acqua “virtuale” il cui peso non viene generalmente calcolato quando si parla dei consumi globali e individuali di acqua.

L’impronta ecologica

Si ricorderà che nel 1997 si tenne a Rio de Janeiro un Forum internazionale denominato “Rio+5”: vale a dire Rio 5 anni dopo la conferenza internazionale del 1992. In quella sede Mathis Wackernagel con la sua équipe del Centro de Estudios para la Sustentabilidad dell’Università Anahuac de Xalapa in Messico, presentò uno studio – Ecological Footprints of Nations – che calcolava quella che viene definita “impronta ecologica” di 52 nazioni, abitate dall’80% della popolazione mondiale. Questa “impronta” viene calcolata misurando il consumo delle 52 nazioni, e l’entità che il “consumo” avrebbe se le nazioni si limitassero a consumare restando nei limiti della loro locale capacità ecologica senza sottrarre quella degli altri. In tal modo fu anche possibile calcolare il “deficit ecologico” di ciascuna nazione. Dall’analisi risultò che l’umanità nel suo insieme utilizza risorse e servizi della natura in quantità superiori di più di un terzo alle capacità di rigenerazione della natura stessa.
Il metodo utilizzato fu variamente accettato pur con qualche riserva circa i problemi di ordine metodologico che presentava, ma, il concetto di impronta ecologica presenta, comunque, un’innegabile efficacia simbolica e sottolinea bene la percezione del nostro crescente impatto sul pianeta.

Calcolare l’acqua “virtuale”

Altrettanto, in certa misura, si può dire per l’acqua. Non solo e non tanto per l’acqua “reale”, quanto per l’acqua “virtuale”: quella, cioè, contenuta in merci e, soprattutto in prodotti agricoli e zootecnici.
Nello studio in questione i ricercatori hanno effettuato una stima quantitativa del consumo di acqua di ciascuna nazione e quindi hanno stimato i flussi internazionali di acqua sulla base degli scambi di prodotti agricoli e industriali.
Il risultato è che l’impronta idrica globale media annua nel periodo 1996-2005 preso in considerazione è stata di 9.087 Giga metri cubi. Il che significa che ogni anno, fra il 1996-2005, abbiamo usato 9.087 miliardi di metri cubi d’acqua, il 92% dei quali è servito per l’agricoltura, cioè molto più del 70/80% che si valuta sia annualmente assorbito dall’agricoltura.
Se ne ricava, ancora, che l’impronta idrica del consumatore medio globale è di 1.385 metri cubi. E, per fare qualche esempio, il consumatore medio negli Stati Uniti ha un’impronta idrica di 2.842 metri cubi; un indiano ne ha una di 1.089 metri cubi e un cinese di 1.071.
Ma ciò che è soprattutto importante è la composizione del “contributo” all’impronta idrica del consumatore medio che per il 27% proviene dalla produzione di cereali, il 22% dalla produzione di carne e per il 7% dai prodotti lattiero-caseari. Per rendersi conto dell’importanza di questa osservazione, si pensi che per produrre un chilo di carne di manzo occorrono 16.000 litri di acqua e 140 sono i litri “contenuti” in una tazza di caffè.
Sono questi i dati che consentono di comprendere al meglio il concetto di impronta idrica e perché anche paesi ricchi di acqua hanno una rilevante impronta, consumano cioè al di là delle loro naturali disponibilità. Avviene ciò perché essi, tramite l’elevato consumo di prodotti cerealicoli e zootecnici, sono forti importatori dell’acqua “virtuale” contenuta in questi prodotti.

I consumi occulti dei ricchi

Secondo gli autori dello studio, “Per alcuni paesi europei, come Italia, Germania, Regno Unito e Paesi Bassi, l’impronta idrica esterna contribuisce dal 60 al 95% dell’impronta idrica totale. Dall’altra parte alcuni paesi come Ciad, Etiopia, India, Niger, Repubblica democratica del Congo, Mali, Argentina e Sudan hanno un’impronta idrica esterna molto limitata, inferiore al 4% del totale.”
Per cui “Conoscere la dipendenza dalle risorse idriche situate altrove è rilevante per un governo non solo allo scopo di valutare la propria politica ambientale, ma anche nel momento in cui si valuta la sicurezza alimentare nazionale.”
Insomma è possibile porre in termini realistici il problema della disponibilità di acqua e temere in modo concreto che si possa parlare di emergenza idrica se nel calcolo della disponibilità di questa risorsa, peraltro rinnovabile, si tiene conto non solo dei consumi “diretti” pro capite, ma anche di quelli per così dire “occulti” la cui virtuale presenza è contenuta nelle merci e, soprattutto, negli alimenti.
D’altra parte bisogna anche tener conto di un’altra pericolosa realtà. Come già sottolineato, l’acqua disponibile per natura è moltissima; ce n’è dovunque; si rinnova annualmente secondo un ciclo; ma uso, abuso, sprechi e inquinamento ne depauperano quantità e qualità. In più i temuti mutamenti climatici già oggi e ancor più in prospettiva, possono seriamente interferire negativamente sulla enorme disponibilità di acqua nei grandi bacini idrici ricordati all’inizio.
Infatti, l’acqua esiste in quantità date e non incrementabili naturalmente (si può fare con la dissalazione, ma questo è un altro discorso), ma si rinnova annualmente secondo un ciclo le cui tappe sono l’evaporazione, la condensazione, la ricaduta sotto forma di precipitazioni nevose, piovose eccetera. È chiaro che se eventi incontrollati vengono ad interferire sul ciclo, il problema assume altri aspetti.

La minaccia dei mutamenti climatici

Tanto per fare un irrealistico esempio estremo, se un meteorite come quello che 65 milioni di anni fa si ritiene abbia provocato l’estinzione dei dinosauri in seguito all’oscuramento del sole e al mutamento climatico che ne è derivato; se un meteorite come quello si abbattesse sulla Terra, prescindendo da altre drammatiche considerazioni, il Sole resterebbe per un cero tempo oscurato, non alimenterebbe l’evaporazione da mari ed oceani e tutto progressivamente inaridirebbe perché il ciclo dell’acqua ne risulterebbe sconvolto.
Ma non c’è bisogno di un meteorite o di una serie di potenti eruzioni vulcaniche perché ciò accada.
I mutamenti climatici, che alcuni segnali dimostrerebbero già in atto, costituiscono, anche in questo senso, un serio motivo di preoccupazione interferendo sull’andamento naturale del ciclo dell’acqua.
Lo dice anche l’allarmato e allarmante rapporto delle Nazioni Unite del 22 marzo 2006 sul progressivo assottigliamento della portata dei maggiori fiumi della Terra.
Proprio con riguardo a quanto prima dicevo circa la grande quantità di acqua esistente dovunque e l’invito ad osservare un planisfero per rendersene conto, un passaggio di quel rapporto mi sembra estremamente significativo, dove si dice che “le cartine dell’atlante non corrispondono più alla realtà. Le vecchie lezioni di geografia, secondo cui i fiumi sgorgavano dalle montagne, ricevevano acqua dagli affluenti e finalmente sfociavano gonfi negli oceani sono ora una finzione”.
Dunque quello che mi sembrava un realistico ottimismo circa la disponibilità di acqua dovunque va ridimensionato: acqua ce n’è dovunque, ma dovunque ce n’è sempre meno. E ce n’è sempre meno perché su tutta la Terra è stato enormemente modificato “l’ordine naturale dei fiumi”. L’umanità, si legge ancora nel rapporto dell’ONU “ha intrapreso un immenso progetto di ingegneria ecologica senza pensare alle conseguenze e al momento senza conoscerle”.

Ugo Leone

05 febbraio 2012

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