Suoni Naviganti

jazz


Si è conclusa domenica 5 luglio la rassegna “Suoni naviganti”, iniziativa nata per la valorizzazione del territorio dei navigli lombardi. Dopo i primi due appuntamenti al Castello di Abbiategrasso, che hanno visto sul palco Enrico Rava insieme al New Quintet e Stefano Benni e Paolo Damiani nello spettacolo “Apparizioni”. Le note jazz hanno contagiato anche il pubblico della Villa Castelbarco di Vaprio D’Adda, teatro delle performance di Gianmaria Testa in duo con Gabriele Mirabassi e di Giovanni Nuti, interprete di “Rasoi di seta”, frutto del sodalizio artistico con Alda Merini. Una serata, quest’ultima, che ha caricato di straordinaria potenza drammatica le antiche scuderie di Villa Castelbarco. Dapprima il chiacchiericcio – sofisticato anch’esso – dei presenti all’evento, poi all’entrare del cantautore toscano e dell’orchestra di cinque elementi (pianoforte, oboe, chitarra, violino e percussioni) il silenzio. Assente alla rappresentazione per motivi di salute e familiari, la Merini era presente con i suoi versi, che risuonavano e si fondevano con le musiche create apposta per esaltarli, suggerire impressioni, stimolare immagini.

La poetessa raccontò a Giovanni Nuti che durante gli anni di ricovero in manicomio, tutti i giorni si affacciava alla finestra per vedere se qualcuno sarebbe andato a trovarla. Tutti i giorni per quindici anni. E non andò mai nessuno. Ma aggiunse anche: “La musica che hai scritto è quella che io sentivo quando ero in manicomio”. Musicati i suoi versi, è stata data voce a quelli che lei definisce i poeti poveri senza una casa libera […] tutti noi costretti dentro […] siamo una fede senza profeti. È prepotente la sua voglia di vita, il suo bisogno di raccontarla e di aggrapparsi ai giorni e al tempo, come recitano i suoi versi ed evocano le note: “Io come voi sono stato sorpreso mentre rubavo la vita col mio desiderio d’amore”, “Il seme del vivere […] dove può germogliare Dio”.
Ma la vita della Merini è anche – e tanto – sofferenza e disperazione (“Ho mangiato vergogna ogni giorno. […] La scienza del dolore dell’uomo è la scienza mia”). Per gli amori che fanno male e bruciano ogni speranza (Un amore così bello non doveva far male. / L’uomo per sé vuole le cose eterne e non sa come dirlo all’altro che non ha capito niente. / Prima di venire portami tre rose rosse e un grosso ditale per ricucirmi il cuore). Per la solitudine, l’assenza di calore e l’indifferenza degli uomini, ben espressi nella poesia “La stufa di maiolica” e nella versione musicata che sulla copertina del cd fa troneggiare una stufa in una spiaggia assolata con tanto di ombrelloni.

Per coloro che, come la vicina di casa inopportuna, “la zanzara folle che apre le mie finestre”, non hanno la pazienza di cercare la chiave giusta per comunicare. E per quelli che la vita ha travolto, per chi non ce l’ha fatta, come la sua amica e collega, Mariella, morta suicida, che nella poesia “Che rumore fa l’acqua”, descrive solida come una quercia nonostante le caviglie sottili e il bisbiglio di uccello smarrito, innamorata di un sogno che non si avverava mai.
La risposta al male di vivere nella Merini sta nell’infinita delicatezza per tutte le creature, nella capacità di riservare a ciascuno l’attenzione che salva dal silenzio e dall’abbandono: “per toccare una rosa ci vuole un credo di Dio, una magica aspettazione e nessun tempo”.

Elisabetta Gatto

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