Bombe atomiche e altri pericoli

orologio-apocalisse

Ambiente e politica si intrecciano nella nuova rubrica “Politiche dell’ambiente”, curata da Ugo Leone.

A Chicago, presso la sede del locale Bulletin of the Atomic Scientists (BAS – Bollettino degli Scienziati Atomici) esiste un orologio, il Doomsday Clock, che segna il tempo che manca alla mezzanotte: l’ora dell’apocalisse. Si tratta della temuta apocalisse nucleare.
Il momento in cui quell’ora è stata più vicina è stato toccato nel 1953 quando gli Stati Uniti sperimentarono la prima bomba H. In quell’occasione l’orologio toccò le 23 e 58 minuti.


Superato quel momento di gravissimo pericolo per il pianeta, il tempo ha cominciato a scorrere all’indietro allontanandosi dalla mezzanotte; ma il 27 febbraio 2002 Leon M. Lederman, premio Nobel per la fisica, ha di nuovo spostato in avanti le lancette portandole alle 23 e 53.
Un ulteriore spostamento in avanti si è avuto nel gennaio 2007 quando le lancette furono spostate alle 23 e 55 avendo assimilato il cambiamento globale del clima al rischio di un olocausto nucleare.
Un inquietante ulteriore aggiornamento (altri 2 minuti) si è avuto nel 2007 quando la Corea del Nord effettuò nuovi test nucleari che fecero temere un possibile conflitto tra Usa, Russia, Iran e Cina. In quel momento erano le 23,57: tre minuti sarebbe stata la distanza della Terra dalla distruzione. Naturalmente si tratta di minuti virtuali che indicano quanto vicino sia il possibile manifestarsi del rischio.
Tuttavia le lancette possono anche tornare indietro: è avvenuto ancora nel 2007, quando, come affermano i redattori del Bulletin, dopo le preoccupazioni appena ricordate, «sembrava che i leader mondiali potessero affrontare le minacce incombenti».

Cinque minuti a mezzanotte
Ma da gennaio 2012 le lancette hanno ripreso a camminare in avanti, il tempo che ci separerebbe dall’Apocalisse, secondo gli scienziati del Bulletin, si è di nuovo accorciato e l’Orologio dell’Apocalisse segna mezzanotte meno cinque. Ciò perché «il cammino verso un mondo libero da armi nucleari è tutt’altro che chiaro e manca una chiara guida in quella direzione». Infatti, se è confortante la firma, a dicembre 2010, di un nuovo trattato Start (il trattato per la riduzione delle armi strategiche) tra Stati uniti e Russia è soprattutto vero che «i governi di Usa, Cina, Iran, India, Pakistan, Egitto, Israele e Corea del Nord non sono stati capaci di ratificare il Trattato per la messa al bando totale dei test nucleari (Ctbt), e di portare avanti un trattato che metta fine alla produzione di materiale fissile».
Ma non è solo il timore del nucleare bellico a far spostare in avanti le lancette dell’orologio. Quelli che sino ad ora hanno regolato l’andamento delle lancette sono reali motivi di allarme, ma non gli unici.

Altre catastrofi incombenti
A quelli legati alle bombe atomica e all’idrogeno e alla guerra fredda degli anni Cinquanta e Sessanta si sono aggiunte le preoccupazioni derivanti dalla consapevolezza di vivere in un pianeta inquinato e deteriorato in tutte le componenti naturali (aria, acqua, terra), sovrappopolato e cresciuto secondo un modello utilizzatore e dissipatore di risorse non rinnovabili; in un pianeta i cui abitanti sono quotidianamente sottoposti al rischio di una catastrofe naturale o di un “incidente” in un impianto industriale o in una centrale nucleare o, comunque, provocato da attività umane.
Soprattutto, l’attenzione è posta sui cambiamenti climatici, abbastanza evidentemente in atto, che alimentano ulteriori preoccupazioni. Tanto che, secondo il Bulletin, «il mondo è condannato a un clima più caldo, fenomeni meteo più estremi, siccità, carestie, scarsità d’acqua, innalzamento dei mari e crescente acidificazione degli oceani», se non si riuscirà a diminuire da subito la nostra dipendenza dai combustibili fossili «le decisioni prese nei prossimi pochi anni ci metteranno su una via che sarà impossibile cambiare».

Cresce l’inquinamento atmosferico
Né “solo” l’intensificarsi della ricorrenza e dell’intensità di eventi estremi è motivo di preoccupazione.
Secondo uno studio pubblicato su Biogeoscience è ulteriormente preoccupante l’impatto delle emissioni inquinanti in atmosfera. Queste sono transfrontaliere, colpiscono, cioè indipendentemente dal luogo in cui sono prodotte. È perciò, ad esempio, che ogni anno l’Europa perde 1,2 milioni di tonnellate di grano a causa delle sostanze inquinanti derivanti dal Nord America. Si calcola che questo inquinamento americano danneggia il 50-60% della produzione di mais e il 75-85% di quelle di soia a livello mondiale. Ancora più grave è l’impatto planetario dell’inquinamento proveniente dall’Asia responsabile, tra l’altro, per oltre il 90% dei danni alle coltivazioni di riso.
Secondo Steve Arnold, il climatologo dell’Università di Leeds coordinatore dell’equipe che ha condotto la ricerca pubblicata su Biogeoscience, questi dati vanno presi in seria considerazione nel riconsiderare le politiche globali sul clima.
Invece le ricorrenti conferenze internazionali, dalla firma del Protocollo di Kyoto sino all’ultima a Durban nel dicembre 2011, si chiudono regolarmente con sostanziali fallimenti che prendono atto del problema, riconoscono l’importanza dell’assunzione di provvedimenti, ma ne rinviano l’attuazione.

I “negazionisti”
In più non mancano i “negazionisti”, i quali appena la temperatura scende al di sotto dello zero ironizzano sul fatto che i temuti mutamenti climatici siano legati all’aumento delle temperature. Si attribuisce la responsabilità di queste informazioni “catastrofiste” agli ecologisti da salotto (generalmente classificati di sinistra) e si nega il nesso di causa ed effetto tra emissioni di gas serra in atmosfera e aumento delle temperature medie della Terra (ne dà conto, tra gli altri, L’Internazionale del 7 ottobre 2011 con un articolo di Martin Caparròs, Contro gli ecologisti).
Più di recente, Il Foglio che è tra i quotidiani capofila del negazionismo in Italia, riporta l’appello di 16 scienziati, pubblicato sul Wall Street Journal del 27 gennaio 2012, i quali affermano che le temperature terrestri sono molto lontane dal temuto aumento ipotizzato dai sostenitori del global warming.
In questo caso la cosa che mi sembra particolarmente significativa sono titolo e sommarietto con i quali Il Foglio del 3.02.2012 dà la notizia: «ma non dovevamo morire di caldo? L’appello di 16 scienziati contro il panico da global warming». Significativa perché rappresentativa di un modo di informare che tende a orientare più che a informare. Sono personalmente disposto ad ammettere che non vi sono prove scientificamente concrete sul riscaldamento globale in atto, ma vi sono molti indizi. Dunque, se così lo vogliamo definire, il “processo” è indiziario. Ma, pur nell’incertezza, in presenza della possibile arma del delitto (i gas serra) e dell’evidente vittima (i cittadini delle generazioni future), è meglio tenere alte le difese applicando il principio di precauzione.
Se poi si dovesse dimostrare che l’uomo non ha particolari, determinanti, responsabilità nel provocare il surriscaldamento terrestre e che, anzi, incombe sulla Terra una nuova glaciazione; se si dimostrerà tutto questo, aver ridotto le emissioni inquinanti in atmosfera è comunque un risultato fondamentale per la salute umana che avrà solo da guadagnare nel respirare meno porcherie e nel vedere meglio protette milioni di tonnellate di prodotti agricoli.

Ugo Leone

16 febbraio 2012

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