Trump “riscalderà” anche il pianeta?

Entusiasti i sostenitori di Donald Trump, preoccupazione tra i delegati alla COP 22 di Marrakech per la sorte della lotta al riscaldamento globale e perfino del PIL moondiale. Ma il business dell’innovazione potrebbe prevalere sulle lobby dei fossili
 
Andrea Ferrari Trecate
 
 
L’elezione di Donald Trump pone l’America e non solo di fronte ad una evidente spaccatura sociale e culturale, quindi prima di rivolgere l’attenzione a quali sono i progetti ambientali del nuovo presidente, dovremmo chiederci chi ha votato un candidato che non ha mai fatto mistero delle sue posizioni negazioniste e retrograde verso le tematiche ecologiche.
Trump è stato democraticamente eletto per paradossale merito della sua ignoranza, ignoranza che ha trovato un terreno fin troppo ampio e fertile per diffondersi. Oggi più che mai ci troviamo costretti a guardare ai votanti e non al votato.
 
Una sfida che passa attraverso l’’informazione e l’educazione
 
Ogni sfida epocale, come lo è la lotta ai cambiamenti climatici, passa attraverso l’informazione scientifica, l’educazione, l’istruzione nelle scuole e nelle università.
A chi ha parlato allora, il tycoon di Wallstreet? Chi ne ha recepito il messaggio?
Secondo l’analisi di Gabriele Catania per ‘Gli Stati Generali’, i numeri parlano chiaro e sono quelli degli stati più arretrarti dal punto di vista tecnico-scientifico. Legati ancora alle fonti fossili, con una capacità di innovazione e di istruzione bassa o medio bassa, rappresentano le ‘due Americhe’ schieratesi contro Hillary Clinton: una, quella della Rust Belt (la cintura industriale che va dalla Pennsylvania all’Ohio), per decenni serbatoio di voto dei democratici; l’altra, l’America agrario-idrocarburica (Texas, Utah, North Carolina), roccaforte repubblicana fin dai tempi di Nixon. 
Questi stati hanno decretato la vittoria di Trump: si sono allineati alle sue promesse di disattendere gli accordi di Parigi, al suo negazionismo in materia di cambiamenti climatici (un’invenzione della Cina, per indebolire l’economia statunitense); hanno scelto di appoggiare le idee del magnate che difende il fracking e le estrazioni da sabbie bituminose; attendono che il nuovo presidente smonti il Clean Power Act e le politiche ambientali varate dal governo di Barack Obama.
Linee d’azione preoccupanti soprattutto perché evidenziano l’incapacità di apertura mentale e di approccio all’innovazione della nazione più potente del mondo. Queste elezioni mettono in luce ancora una volta la pericolosa deriva culturale che porta a considerare tutte le attività economiche rispettose dell’ambiente come non redditizie. Eppure i cambiamenti climatici hanno dei costi molto salati.
Nicholas Stern, a dieci anni dalla stesura del rapporto che porta il suo nome, ritiene infatti di essere stato fin troppo ottimista: “…non si può sfuggire alle leggi della fisica facendo un patto col pianeta”; “siamo stati troppo lenti ad agire sui cambiamenti climatici, abbiamo troppo ritardato il taglio delle emissioni, con il senno di poi mi rendo conto che avevo sottovalutato i rischi dei costi legati all’inazione (quelli stimati nel report 2006)”.
 
Dal clima un danno fino a un quinto del PIL mondiale
 
I danni economici causati dal cambiamento climatico potrebbero essere pari al 5-20% del PIL mondiale ogni anno, mentre la riduzione delle emissioni di carbonio costerebbe solo l’1% del PIL. Non dobbiamo nasconderci: la vittoria di Trump, è stata la vittoria dell’ignoranza. La vittoria di chi non è capace di immaginare il proprio futuro e nemmeno quello dei propri figli. Gli elettori del nuovo presidente vogliono quel benessere immediato che solo il petrolio e il carbone sembrano poter garantire. Non accettano l’idea di intraprendere un percorso di cambiamento economico sul medio e lungo periodo, temono di impoverirsi, vittime grandi o piccole della crisi economica e hanno così scelto l’uomo che ‘dice ciò che pensa’. Poco importa se i suoi discorsi elettorali sono stati infarciti di razzismo, misoginia e prepotenza.
Cavalcata quest’onda di paura (un’onda lunga, non solo statunitense ma con origini globali, nata tra i muri costruiti nell’Europa dell’est e gonfiatasi nell’Inghilterra della Brexit), ora il nuovo presidente dovrà passare ai fatti e se da un lato la probabile elezione di Myron Bell, lobbista noto per le sue posizioni negazioniste sui cambiamenti climatici, come presidente dell’EPA fa già temere il peggio, bisogna ricordare che Trump rimane prima di tutto un uomo d’affari. L’industria delle rinnovabili è una realtà da migliaia di posti di lavoro e gli enti locali, negli ultimi anni, hanno sviluppato politiche ambientali virtuose fortunatamente impossibili da smantellare. Come potrebbe far invertire rotta ad uno stato come la California che si è scoperto molto più ricco grazie alla decarbonizzazione? Come potrebbe mettere fuori dallo scacchiere economico giganti economici come Tesla o SpaceX?
Mentre in queste ore a Marrakech si tirano le fila degli accordi di Parigi, le persone e i governi che hanno a cuore le sorti del Pianeta sembrano essere chiamati ad un ennesimo difficile confronto. Per quanto preoccupati, non dobbiamo essere pessimisti: le sfide ambientali richiedono grandi sforzi ma i processi attuati sono inarrestabili. Al Gore presidente e fondatore del Climate Reality Project, chiede giustamente di “guardare avanti”: è l’unico modo sensato di interpretare non solo questo particolare momento ma tutti i cambiamenti che dovremo affrontare.

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