Trentadue anni fa l’Irpinia: gli insegnamenti di un terremoto

irpinia

Sappiamo che i terremoti prima o poi arrivano e sappiamo anche dove (quasi in tutta Italia). Ma non possiamo sapere esattamente “quando”: l’importante sono la prevenzione e gli allarmi tempestivi.

Il 23 novembre ricorre il 32° anniversario del terremoto che sconvolse Irpinia e potentino. Non è una data da celebrare, ma da ricordare per non dimenticare.

Per non dimenticare che l’Italia è un paese fortemente sismico e non solo. Ce lo ricorda anche, in modo ironico quanto efficace una vignetta di Giuliano su “notizie verdi” del 1996. Si sa se. Si sa dove. Non importa quando. Questo, credo, dovrebbe essere l’approccio più realistico e, per certi versi, rassicurante al rischio sismico.

Non uccide il terremoto, ma la casa che crolla

Quando il 23 novembre del 1980, alle 19,35, in un minuto e mezzo, una scossa di magnitudo 6,9 devastò l‘Irpinia e il Potentino provocando 2.914 morti, 8.848 feriti e 280.000 sfollati; a quella data, praticamente ieri, in Italia non si sapeva ancora bene dove mentre si era abbastanza certi del se un terremoto avrebbe colpito. E si era anche abbastanza concordi nel prevedere che danni materiali e vittime ci sarebbero stati soprattutto nelle zone in cui si era costruito male, dal momento che, come sono soliti affermare i sismologi, “non uccide il terremoto, ma la casa che crolla”. E la casa crolla perché costruita male o in modo non adeguato a rispondere alle sollecitazioni di una scossa sismica.

La vera sicurezza è nella prevenzione

Tuttavia molti ritengono che la salvezza stia nella prevedibilità. Cioè nella possibilità di sapere anche quando ci sarà una scossa. Al momento e verosimilmente ancora per molto tempo, i terremoti non sono e non saranno prevedibili. Ma è importante che lo siano? Secondo me non è di fondamentale importanza. La prevedibilità potrebbe essere un elemento in più per dare sicurezza, ma la sicurezza concreta è data solo dalla certezza di vivere in strutture realizzate in modo tale da resistere alle sollecitazioni, anche violente, di una scossa.

E queste scosse negli ultimi anni sembrano ancora più frequenti. In realtà non sono i terremoti ad aumentare di numero, ma la ricaduta mediatica dei loro effetti. Ciò perché gli elevati livelli di inurbamento della popolazione e la tendenza sempre più ricorrente a vivere in città rende più vulnerabili porzioni sempre più ampie e più abitate di territorio. Aree, in genere, anche caratterizzate dall’alta concentrazione di articolate reti di servizio (elettricità, gas, acqua, reti di telecomunicazioni e informatiche) in zone geograficamente limitate.

È perciò importante conoscere con buona esattezza quali sono le zone sismiche esposte al rischio. Oggi se sappiamo sempre più e meglio dove e con quale intensità si potranno verificare terremoti in Italia è proprio “grazie” al terremoto del 1980 perché è dopo quel drammatico evento che con il Progetto Geodinamica il CNR ha potuto fornire una mappatura molto più precisa della vulnerabilità sismica del nostro territorio. Il che significa che si sa anche come si deve pianificare l’uso del territorio e come si deve costruire per dare sicurezza alla popolazione che vive in aree sismiche. Cioè quasi tutta la popolazione italiana, sia pure a livelli diversi di pericolosità.

Usare l’innovazione

Se la legge che impone come costruire viene rispettata, la sicurezza è garantita. Ma c’è un pregresso con cui bisogna fare i conti. E c’è il mancato rispetto delle leggi sulle costruzioni antisismiche con le quali ancora fare i conti. Ce lo ricordano almeno il terremoto che nel 2002 uccise 27 bambini in una scuola elementare a San Giuliano di Puglia nel Molise; il terremoto dell’Aquila che nel 2009 fece 309 vittime e registrò il crollo, tra l’altro, della Casa dello studente e del Palazzo della Provincia; il terremoto in Emilia in questo 2012 con 27 morti e il crollo non solo di antiche chiese e campanili, ma anche di più recenti capannoni industriali.

È in questo contesto che dopo i terremoti del Belice, del Friuli, dell’Irpinia e quelli sempre gravi, ancorché di magnitudo più bassa, che ne sono seguiti negli ultimi trenta anni, mi sembra giusto chiedersi quanto sia più sicuro, meno vulnerabile, il nostro fragile territorio. Le risposte, credo, possano essere globalmente rassicuranti. Non solo perché è ipotizzabile e auspicabile che si sia costruito nel rispetto delle leggi e non solo nella zona epicentrale, ma anche perché esistono importanti innovazioni capaci di ridurre di molto gli “effetti collaterali” di un terremoto.

Sistemi automatici per ridurre le vittime

Mi riferisco in particolare al sistema early warning che, tramite una serie di sensori strategicamente sistemati nell’area maggiormente soggetta al rischio di forti terremoti, è in grado di mandare un “allerta preventivo” a quelle strutture particolarmente sensibili il cui funzionamento in genere agisce come moltiplicatore del numero di vittime provocate da un terremoto. Bloccare l’erogazione di sostanze infiammabili (come il gas urbano) che possono essere causa di incendi; bloccare le operazioni chirurgiche negli ospedali; bloccare o rallentare i treni che potrebbero deragliare incontrando tratti di binario danneggiati dal sisma, sono tutte azioni capaci di limitare significativamente le conseguenze di un evento sismico. Tutto ciò può avvenire tesaurizzando il tempo, anche pochi secondi, impiegato da un’onda sismica per raggiungere dall’epicentro la “periferia”. Un tempo assolutamente insufficiente a fare evacuare la popolazione, ma tale da consentire le azioni che prima elencavo. In Italia questo progetto lo sta realizzando AMRA (Centro di Competenza di Analisi e Monitoraggio del Rischio Ambientale con sede a Napoli) con la rete di sensori per Early Warning Sismico (denominata ISNet, Irpinia Seismic Network) costituita da circa trenta stazioni posizionate nella zona dell’Appennino meridionale periodicamente sorgente di terremoti significativi come quello del 23 novembre 1980.

Ugo Leone

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