Sulla scala Mercalli può salire l’Italia

20160326 a

 

Un bilancio della importante trasmissione curata da Luca Mercalli.
Le soluzioni ci sono, ma nel nostro paese molta strada è ancora da fare, nell’informazione come nelle politiche come nel senso comune della “gente”
 
di Pierluigi Cavalchini

 

 

20160326 SCALA MERCALLIArrivati al termine del secondo ciclo di trasmissioni di Scala Mercalli ci pare doveroso un bilancio d’insieme, anche sulla base di un riassunto delle ultime puntate a beneficio di chi le abbia perse (su questo sito trovate anche un commento e un riassunto delle tre puntate precedenti), anche se la cosa migliore è guardarle o riguardarle sul sito del programma.
 
Di fronte ad una tale messe di informazioni, video, interviste, schede ecc. non si può che chiedere di “fermarsi un momento a ragionare”. C’è infatti il pericolo di “veder sfrecciare” tanti contenuti senza avere il tempo di metabolizzarli e farli fruttare. Sembra una banalità… ma tutta la difficoltà a cambiare (nel piccolo come nel grande) deriva soprattutto dallo scarso tempo – e impegno – che diamo al ragionamento, preferendo di gran lunga l’integrazione nel “pensiero comune” e rinunciando a priori ad ogni possibilità di cambiamento.
Un approfondimento, sugli stessi temi, con aggiornamenti e “riprese” in altre trasmissioni, potrebbe essere l’ideale. Ad esempio inserendo cinque minuti in ogni Telegiornale (di qualsiasi testata) dedicati ad approfondimenti sui progressi nelle energie rinnovabili, sulle possibilità di accesso a finanziamenti per iniziative virtuose (dall’installazione di pannelli solari, all’acquisto di auto ibride o elettriche…) fino alle indicazioni possibili per correggere le nostre abitudini alimentari. Lo stesso potrebbe succedere in programmi di “confronto politico-sociale” (da quelli di Vespa ai non-stop di Giannini o Floris) oppure in “pubblicità progresso” esplicitamente puntate ad un maggior rispetto di se stessi, della propria e dell’altrui salute e, ovviamente, dell’ambiente.
E si tratta di capire meglio cosa non funziona, ovviamente non nella trasmissione del nostro bravo Luca Mercalli, ma nel “sistema”. Perché qualcosa di perverso ci deve essere – da qualche parte – per provocare tutta una serie di paradossi a cui non riusciamo a porre rimedio.
Fantascienza? Non proprio. E la struttura dell’ultima puntata ne è un segnale.

Una trasmissione ad “alta velocità” da moltiplicare nei suoi effetti

 
Si parte da una analisi della crisi globale del pianeta che trova una delle sue maggiori motivazioni nella disorganica sovrappopolazione del pianeta, passato in poco più di cento anni da un miliardo complessivo di abitanti a più di sette. Concetto ben chiaro fin dai tempi del “Club di Roma” e dalle prime pubblicazioni di Aurelio Peccei che, non a caso, fu all’avanguardia nel segnalare i problemi insiti all’inurbamento forzato con annesse complicazioni (dal rifornimento / distribuzione di acqua e cibo, alla creazione di una efficiente rete di trasporti e di infrastrutture).
Nel caso specifico Luca Mercalli, come sempre sicuro e preciso, dopo essere partito dalle contraddizioni delle megalopoli asiatiche, è passato al drammatico abbandono di intere aree industriali (e a volte degli stessi centri urbani limitrofi) così come è avvenuto in Inghilterra e nella – una volta – industriosa Detroit. Sono riportate esperienze di recupero di aree inglesi – ex industriali, devastate da detriti e erbacce – riportate “a giardino” con l’obiettivo di farne orti per i cittadini o, almeno, aree destinate al passeggio e allo svago. Il termine tecnico è “Hants Farm” ma si capisce che si tratta di soluzioni di volta in volta diverse a seconda delle aree da rinnovare e bonificare.
Tutta questa attività di rivitalizzazione di aree dismesse porta dritto al recupero di “rifiuti inerti”, mattoni, parti di caseggiati o fabbriche, strutture in cemento, che – se correttamente trattate – possono ritrasformarsi in materie prime perfettamente riciclabili, come la sabbia e il ghiaietto, oltre a ferro e altri metalli.
Così, con ancora negli occhi le immagini dei nuovi slums postindustriali, con la velocità che caratterizza la trasmissione eccoci catapultati in Tirolo, nella ridente Austria. A Innsbruck e zone limitrofe è, infatti, in atto da una decina d’anni un’operazione finalizzata al risparmio energetico generalizzato, combinato con un complessivo miglioramento della qualità della vita. Abbiamo abbondanza di documenti, immagini e interviste che ci raccontano di impianti fotovoltaici ormai diventati d’auso comune, di procedimenti per raffreddare / riscaldare le case assolutamente non energivori, di edilizia naturalistica, di orientamento degli edifici e di costruzioni con materiali particolari. Soprattutto di realizzazioni che possono avere una percentuale di riciclo superiore al 95%, con parti in vetro, cemento, ferro, alluminio, legno ecc. studiate in modo da avere il minore impatto possibile.
Un passo importante verso una “impronta ecologia” minima, molto al di sotto di quelle di altre aree industrializzate.
Si cerca di dare continuità e forza alla “comunicazione” con riferimenti a realizzazioni concrete riprendendo spesso ciò che hanno detto e scritto illustri ecologi, importanti economisti e scienziati. Dopo le citazioni di fondatori ed epigoni del Club di Roma si è deciso di chiudere il ciclo di sei puntate con un riferimento d’eccezione: la scrittrice Naomi Klein, più volte citata anche nelle precedenti puntate.

È Gianfranco Bologna, presidente del WWF Italia, a ricordarne alcuni passaggi. Nel suo libro Perché il capitalismo non è sostenibile. Una rivoluzione ci salverà la Klein è perentoria: “il capitalismo non è più sostenibile. A meno di cambiamenti radicali nel modo in cui la popolazione mondiale vive, produce e gestisce le proprie attività economiche – con i consumi e le emissioni aumentati vertiginosamente – non c’è modo di evitare il peggio.”

Sa benissimo che tutta la particolare situazione che ci troviamo a vivere ha motivazioni che vengono da lontano, perciò, con decisione le ribadisce e le fa conoscere fino in fondo ben sapendo che “rappresentano una minaccia estrema per quell’élite che tiene le redini della nostra economia, del nostro sistema politico e di molti dei nostri media.”
La via d’uscita che intravvede Naomi Klein non è una Green Economy all’acqua di rose, ma una trasformazione radicale del nostro stile di vita.
Nessuno di noi ha mai pensato seriamente di lasciare da parte la macchina, di mettere in stand-by gli apparecchi di casa, o di non prendere l’aereo e optare per il treno. Il massimo che facciamo è andare in bicicletta (ma solo se non fa freddo) e fare la raccolta differenziata. Come se fosse una scelta responsabile e personale, e non una necessità. “
Certo, già un inizio, ma rischia di essere un inganno se non riusciamo ad andare oltre.
Ci sono solo fatti: è un fatto, ad esempio, che da quando è stato ratificato il protocollo di Kyoto le emissioni carboniche siano aumentate del 57%; è un fatto che i paesi ricchi delocalizzino le produzioni inquinanti nei paesi in via di sviluppo, emettendo sei volte di più; è un fatto che le emissioni della Cina siano 671 mg/die, quando il limite di pericolosità è fissato a 25; è un fatto che le compagnie petrolifere continuino a trivellare impunite progettando di farlo ancora per più di 40 anni; è un fatto che nel 2014 il 12% dell’energia globale derivi dal nucleare e solo il 4% da fonti verdi. Ma è un fatto anche che la transizione globale verso il 100% di energia verde è «attuabile sia tecnicamente che economicamente entro il 2030». La dura verità è che, semplicemente, il sistema economico e il sistema planetario sono in conflitto: il capitalismo – sostiene la Klein – ci ha tagliato le radici, facendoci sprofondare in una ipnotica spirale dell’eterno presente, in cui si è stati abituati a sacrificare ciò che ora non è più sacrificabile”.
Un richiamo durissimo ad una maggiore consapevolezza, alla coscienza che il “treno che passa” con tante indicazioni e suggerimenti può essere l’ultimo e, proprio per questo, ne dobbiamo moltiplicare gli effetti.
Non si tratta di “catastrofismo”, solo della dura realtà (…dei fatti).
 
La mobilità sostenibile è già oggi alla nostra portata. Ma l’Italia sembra la periferia del mondo
 
Se torniamo indietro alla quinta puntata di ScalaMercalli l’impressione di essere – noi italiani – alla periferia del mondo diventa ancor più marcata. Pure i nicaraguegni, rappresentati nella loro giusta opposizione al nuovo progetto definito “Secondo Canale Interamericano”, ci mostrano una maggiore coscienza ecologica, una sensazione di appartenenza alla Terra che noi abbiamo dimenticato e che, tristemente, ci rende ancor più consapevoli della nostra incapacità di reazione.
La trasmissione è inclemente e non ce ne risparmia una: continuiamo nella grande opera ferroviaria “Alta Velocità-Alta Capacità Torino Lione” ben sapendo che le richieste attuali sono altre, che è il traffico pendolare quello si muove di gran lunga di più, che esiste già una linea ad Alta Velocità che collega, con pochi rallentamenti, Parigi a Milano in sette ore, ma “ormai è deciso” e si va avanti.
Luca Mercalli non calca la mano su una questione, quella delle “grandi opere”, che ha dimostrato nel tempo tutte le sue contraddizioni. Si limita a dei suggerimenti: bene il trasporto su rotaia, bene l’utilizzo della ferrovia in alternativa al trasporto su gomma (che vede l’Italia al secondo posto in Europa per numero di mezzi e tonnellate circolanti su strada), benissimo il trasporto per nave attraverso quelle che sono definite “le autostrade del mare”. I numeri ci vengono continuamente in aiuto e ci dicono che il tasso di inquinamento di una tonnellata di carico portata per mare è un cinquantesimo inferiore al trasporto su gomma, che ora è possibile avere ottime navi con sensibili risparmi di carburante a parità di prestazioni e, riprendendo esempi provenienti dalla Norvegia, è pronta una trazione efficiente e sicura sul mare totalmente elettrica. Meraviglie della tecnica e dell’innovazione che noi guardiamo da spettatori in terza serata, ben oltre la mezzanotte (data la concomitante posticipazione dovuta all’ ‘ora legale’). Un po’ come quei bambinoni un po’ cresciuti, sempre a corto di soldi, con il naso attaccato alla vetrina della pasticceria più bella della città. Il provincialismo è duro a morire…
Sempre sul tema della mobilità sostenibile il programma si lancia in una “promotion” della trazione elettrica, sia diretta con batterie ricaricabili, sia tramite l’”hybrid”, cioè il sistema che integra le batterie con il recupero di energia da frenata e decelerazione. La visita alla giapponese “Toyota” di Nagoya è illuminante, come pure il riferimento ad “una diversa concezione della mobilità” che trova nella città di Tokyo una delle sue massime espressioni: più di dieci milioni di abitanti che al 75% utilizzano mezzi pubblici efficienti, un’ottantina di linee della metropolitana e, soprattutto, attenzione ad integrare i servizi con ambiti lavorativi e abitativi adeguati, ad alta efficienza e a costi energetici minimi.
Ahi, ahi. Questa volta i “giapponesi per anni in attesa della fine della guerra”, invecchiati e tagliati fuori dal mondo, siamo noi.
L’attenzione va, poi, ad un’altra fonte ormai ben collaudata, l’idrogeno. Viene presentato, fra altre realizzazioni, il sistema di bus all’idrogeno di Amburgo, nella Germania del nord; ne viene specificato il funzionamento rendendo più chiaro il rapporto con la fonte primaria di approvvigionamento elettrico (visto che è necessaria, a metà processo, l’elettrolisi). E qui, riprendendo un argomento delle precedenti puntate, il riferimento alle energie rinnovabili è d’obbligo. In pratica, prima si ottiene energia dal solare e dall’eolico (o dall’idroelettrico classico) poi si procede con la trasformazione in idrogeno per motori. Un mondo nuovo, fondato su differenti modalità di vita e di movimento. Una realtà già viva in nord Europa (la Norvegia è già oggi con il trenta per cento del parco macchine elettrico, seguita da Olanda, Giappone e Germania…) ma che stenta ad attecchire altrove, non solo in Italia. E i motivi non stanno nella “cabala” o nel destino.
Abitudini vecchie… dure a morire, costi consistenti dei nuovi sistemi aggravati da mancanza di programmazione, mancanza di domanda continua, ostacoli burocratici, legislativi e industriali di ogni genere.
Al riguardo, uscendo dallo stretto ambito della trasmissione, può essere utile considerare quello che è appena successo a Los Angeles (il giorno 23 marzo) davanti alla sede di uno dei giornali più diffusi. Nessuno ne ha parlato, non c’è stata una riga sui vari “televideo” che infestano le nostre reti né, tantomeno, un qualche accenno da parte delle autorità di governo.
Quello che è accaduto ce lo racconta un giornalista irlandese, Neil Briscoe, del “The Irish Times”, di ritorno dagli States.
Un gruppo di manifestanti, circa un migliaio – ordinati e organizzati come solo gli americani sanno essere – ha invitato i proprietari del Los Angeles Times a non vendere il giornale – ora in difficoltà – ai fratelli Koch visto che sono fra i principali fautori del mantenimento dell’uso dei combustibili fossili e fra i più solleciti ad ostacolare l’incremento di auto elettriche. Una segnalazione di imbarazzo che ad altre latitudini avrebbe suscitato poco clamore e invece, nell’assolata California, trova qualcuno disposto a metterci la faccia.
L’impero dei Koch ammonta a 115 miliardi di dollari di entrate all’anno e proviene soprattutto dai pozzi petroliferi e dalla commercializzazione dei derivati del petrolio. Una “potenza” che si troverebbe in forte difficoltà se ci fosse un decisivo cambio di abitudini verso altri tipi di motorizzazione, ad esempio quella “elettrica” e la “hybrid”. Un processo, di fatto, già in atto da tempo con incentivi statali consistenti
Per alcuni modelli auto elettriche, come la Volt Chevrolet si è arrivati a sconti di ben 9.000 dollari. Dal momento in cui, però, i prezzi della benzina sono calati, si è avuta un’inversione di tendenza del pubblico americano, tornato ai grandi SUV, ai “crossovers” e ai “pick up”. Si è, comunque,’ in mezzo ad un ‘guado’ e gli stessi costruttori di automobili, data la prossima adozione di una normativa più restrittiva in termini di emissioni (95g/km) pensano che sia vicino un ‘ritorno alla grande’ dei prodotti “elettrici”. Interessante, a questo punto, il peso che vanno ad assumere le tax rules locali.
Alcuni Stati , tra cui la Georgia, hanno deciso di interrompere il sostegno ad ogni nuovo acquisto elettrico (pari a circa 5.000 dollari), in contrasto con quanto suggerito dallo stesso Congresso americano, orientato ad arrivare a 10.000 dollari di incentivi.
Un segnale di rallentamento che ci giunge anche dall’Inghilterra, dove gli incentivi – per legge – a partire dal 2017 andranno solo ai veicoli a ‘zero-emissioni totali’ e non a tutti gli EV (veicoli elettrici).
Questo con buona pace del 30% norvegese già acquisito dal mercato delle “elettriche” e degli sforzi di alcune fra le principali industrie automobilistiche mondiali, addirittura più all’avanti dei loro governi.
Inoltre, i fratelli Koch sono parecchio preoccupati dal momento che i veicoli elettrici non si limitano più alle precedenti performance con ‘pieno batteria’ utile solo per 150 km ma, ormai, hanno nuove batterie che possono raggiungere i 400 km di autonomia. Un dato che va ad integrare quanto comunicato proprio nella quinta puntata di ScalaMercalli dove le interviste e gli approfondimenti si fermavano al limite di autonomia di 150 km , senza andare oltre.
 
In questa situazione di passaggio ogni attore cerca di giocare al meglio le proprie carte. I consumatori cominciano a capire che i vari tipi di vetture elettriche hanno molti più pregi che difetti, i petrolieri (come i fratelli Koch) tentano in tutti i modi di frenare il cambiamento suggerendo agli Stati (ultimamente anche all’Irlanda) di mantenere tassazioni inferiori per i veicoli diesel (meno 10 cent per litro), anche se si tratta di una tendenza in via dì superamento visto che l’Inghilterra e molti altri Stati non fanno più distinzione fra auto a diversa alimentazione , favorendo –nei fatti – lo sviluppo del comparto elettrico.
Da ricordare che tutto il “baraccone” dei veicoli derivanti da combustibili fossili beneficia di un contributo consistente (fonte F.M.I.) di ben 10 milioni di dollari ogni minuti, a livello planetario. Non solo.. secondo l’Agenzia Internazionale dell’Energia ben il 23% delle emissioni di CO2 proviene dal settore dei trasporti. Con la globalizzazione inoltre lo scambio di merci sta crescendo vertiginosamente, richiedendo sempre nuove e più imponenti infrastrutture, con impatti sull’ambiente che non possono essere trascurati. Ecco perché un futuro dei trasporti basato sulla sostenibilità è un’assoluta priorità. Come si è visto, basta volerlo.
 
Il nostro Luca ci prova … ma ci vuole ben altro. A cominciare dai miei condomini…
 
Torniamo ancora indietro, alla quarta puntata.
Per chi non avesse visto la trasmissione, o non ne avesse dato un’occhiata al video completo in rete, si è discusso di alimenti, qualità dell’alimentazione, scarsità di cibo, abbondanza di problemi collegati all’agricoltura e di un mucchio di altre cose. Ma a che pro…se scendendo in strada (Vi assicuro che è successo) ho dovuto piazzare il mio sacchetto di “organico” (preparato secondo i crismi) a fianco di un pacchetto trasparente in plastica tradizionale con tanto di biscotti ammuffiti dentro. Sì, certo, il contenuto era “organico” ma buttarlo lì con tanto di involucro , mi è sembrato – riprendendo il termine d’avvio – paradossale. Probabilmente il condomino “poco civile” era sintonizzato su altro, oppure giocava a carte o ‘che sso io’… il problema è che questa endemica difficoltà a conferire correttamente nei cassonetti è tutta nostra, verrebbe da dire “uno sfregio italico” a comportamenti ritenuti inutili “tanto poi va tutto insieme”.
Iniziamo da questo “contrasto” perché è successo veramente e perché può essere questa la spiegazione dell’impermeabilizzazione totale ad ogni segnale d’allarme. E qui andiamo a riprendere alcuni dei passaggi della puntata di sabato 19 marzo. “Siamo ormai sette miliardi e trecentocinquanta milioni sulla Terra, mentre poco più di cento anni fa eravamo in un miliardo soltanto…” Embè? C’è posto per tutti, c’è il mare, ci sono i deserti… qualcuno ci penserà. “Attenzione: ormai alcune, pochissime, multinazionali ‘padrone del cibo’ si sono insediate in tutti i gangli nevralgici della filiera, dall’esclusiva sui semi (spesso resi sterili di proposito), alla catena perversa ‘monocoltura-concime chimico-diserbante-raccolta con mezzi tuttofare’”. Ah sì… Bene!. Vuol dire che, c dice una voce anonima, “la tecnica è andata avanti e che, così, ho le fragole e le castagne tutto l’anno”. E potrebbe continuare: “Tranquilli, che da qualche parte nel mondo qualcuno lavora per noi… D’altra parte ci spezziamo la schiena tutto il giorno, andiamo in palestra, accudiamo figli e nipoti, abbiamo pure il tempo di visitare i parenti anziani e di ospitare gli amici al sabato sera… Avremo pur diritto ad avere ciò che più ci piace nel supermercato qui sotto casa? Oppure no?”
Probabilmente si tratta della stessa persona che ha tagliato corto con il sacchetto di biscotti, sperando in qualche “angelo separatore” che provveda – poi – a disfare e selezionare ciò che è stato buttato senza criterio.
Sono quegli stessi “angeli”, spessissimo di colore o, comunque, non italiani, che operano nelle imprese di riciclaggio dell’organico; quello che – per chi se lo fosse dimenticato – può produrre un ‘compost’ ammendante per l’agricoltura di ottima qualità. “E ricordiamoci – ci dice un agricoltore cuneese molto contento – che questo ‘compost’ ci costa meno di tre euro a tonnellata, pochissimo rispetto ai prezzi degli ammendanti chimici”. Ce lo dice quasi sottovoce, come se ascoltasse qualche ‘grande fratello’ collegato alla Monsanto o alla Bayer; un faccino vispo e un bell’accento piemontese che fanno a pugni con l’ombra anonima del cassonetto e che ci riportano alle ‘buone cose di un tempo’.
D’altra parte è proprio il ritorno ai sistemi agricoli di una volta il leit-motiv della puntata. Tecnici informatici, avvocati, maestri (a cuiu aggiungere operatori di banca ma anche agricoltori ‘pentiti’) che si sono riavvicinati alla produzione agricola di qualità riprendendo sistemi di semina, coltivazione, innesto e raccolta, tipici di cento e più anni fa. Quali i risultati? Si direbbero più che soddisfacenti con un evidente miglioramento della qualità relativa (con solo una diminuzione, nemmeno poi così forte, della quantità prodotta). Le analisi chimico-fisiche, poi, ne certificano la bontà e, se ce ne fosse ancora bisogno, ci fanno capire quale dovrebbe essere la corretta strada da seguire.
Un percorso già ben delineato dal “Club di Roma” a fine anni Sessanta dello scorso secolo e ripreso – con aggiornamenti – nel bel libro di Michael Pollan L’enigma dell’onnivoro del 2008, assolutamente attualissimo.
Un percorso, ancora, che viene suggerito – per contrasto – dalle considerazioni del docente universitario dell’UNIPR prof. Carlo Modonesi quando fa riferimento agli Organismi Geneticamente Modificati e ricorda che “non possiamo affermare che siano pericolosi come non lo possiamo escludere” anche se, immediatamente dopo, ci dice che “le segnalazioni mediche che ci vengono da mezzo mondo e che riguardano l’aumento esponenziale di ‘allergie’ e ‘irritazioni’ dei più vari tipi, ci fanno pensare”.
Un invito simile (…a pensare) ce lo ripete il dott. Mario Lubetkin, uruguaiano, responsabile delle politiche alimentari della Food Alimentation Org. (FAO), guarda caso proprio il luogo in cui la trasmissione è ospitata. Non mancano – nella sua breve intervista – riferimenti all’ONU, a quella che dovrebbe essere un’attenzione mondiale ai problemi della produzione e della commercializzazione del cibo, come pure al mantenimento della ‘biodiversità. Non sono, all’apparenza, parole al vento perché esistono importanti realizzazioni che certificano il contrario. Una di queste, la “banca della biodiversità dei semi” delle Isole Svalbard a nord della Norvegia, ne è un esempio e – giustamente – ha lo spazio dovuto con un video interamente dedicato a questa realizzazione. Una banca mondiale dei semi, di tutti i semi possibili e immaginabili, totalmente gratuita per il conferitore ma di incredibile importanza per il futuro del pianeta.
Rileggendo, ritrovo poco sopra il poco lusinghiero “parole al vento”, ma è proprio questa la sensazione che abbiamo avuto a fine trasmissione. Una bella parata di esempi virtuosi, più o meno collegati ma con un fardello pesantissimo da portare: “la situazione era simile quindici, dieci, cinque anni fa e troppo poco si è fatto , perché di tempo non ce n’è più e non è possibile “giocare” ancora.
E se provassimo a pensare ad un’Organizzazione delle Nazioni Unite che prescrive esattamente e in dettaglio cosa devono fare i vari Stati del mondo? Le risorse sono poche, le popolazioni crescono e, giocoforza, i rimedi devono essere netti e generalizzati.

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