Politiche della libertà finita

Antropocene, crescono attenzione e dibattito. Un numero speciale di Culture della sostenibilità, un convegno a Ecomondo.
Intervista a Mariaenrica Giannuzzi sul tema dell’Antropocene.
 
Tiziana Carena
 
È dedicato al dibattito sull’Antropocene il numero del secondo semestre 2016 di Culture della sostenibilità, che sarà presentato a Rimini in occasione dell’appuntamento internazionale di Ecomondo sulla green economy e l’innovazione il prossimo 8 novembre. Anticipiamo qui alcuni temi del dibattito con una intervista di Tiziana Carena a Mariaenrica Giannuzzi.
 
Sulla rivista effimera.org hai descritto un dibattito sulle filosofie che tentano di descrivere la crisi ambientale che da poco è stata ribattezzata con il nome di Antropocene, segnando un passaggio di era geologica. L’invenzione di una nuova era ha attratto molti curiosi e il dibattito dai geologi si è esteso alla filosofia e alle scienze sociali. Da dove viene il termine Antropocene e cosa significa?
 
Questo termine viene da un tentativo di riscrivere la storia della Terra aggiungendo un’ultima era geologica, l’era della specie umana, per dare conto delle discontinuità che si osservano nei parametri ecologici da vent’anni a questa parte. L’umano sarebbe così una specie che, a causa del riscaldamento globale, diventa un fattore di estinzione paragonabile ai fattori “naturali” che hanno causato le cinque grandi estinzioni precedenti. Questa revisione della International Geologic Time Scale è una proposta che viene dalla geologia anglo-sassone quando si è costituito un gruppo di studio detto AWG, un gruppo di circa quaranta persone tra oceanografi, geologi, stratigrafisti, paleontologi, meteorologi, che, a partire dal 2009 sono stati incaricati dall’International Commission of Stratigraphy (ramo della Geological Society of London), di dare seguito al progetto di ricerca del geologo Jan Zalasiewicz cercando prove stratigrafiche per la causa antropica del cambiamento climatico. Zalasiewicz, infatti, proponeva di verificare l’effettiva esistenza di tracce nella documentazione rocciosa che giustificassero l’uso crescente del termine Antropocene, coniato fin dagli anni ’90 dal Nobel per la chimica Paul Crutzen, e che, a seguito delle crescenti pubblicazioni e conferenze dello stesso AWG, continua a trovare riscontro anche in un pubblico di non specialisti (come dimostrano le traduzioni sui più grandi quotidiani europei dell’articolo di Maslin&Lewis, inizialmente apparso su Nature il 12 marzo 2015, che aggiornava sullo stato dei lavori dell’AWG) ponendo un problema politico di datazione.
Le ragioni della diffusione di un dibattito che sembra tutto interno a una disciplina accademica stanno proprio nel carattere politico di questa datazione: l’antropocentrismo che può venirne rafforzato, l’individuazione delle priorità di una politica ambientale, la definizione della specie umana in base a una certa visione di parte dell’economia.. sono questi i problemi aperti da una revisione della cronografia terrestre.
 
Grande risonanza anche nelle scienze umane sociali
 
Ma perché questo nuovo termine, che in fondo non indica altro che l’ipotesi già nota di cause antropiche al cambiamento climatico, ha tanta risonanza nelle scienze umane e sociali sia nel mondo anglo-sassone che nel “continente” come in Francia e in Germania e ultimamente anche in Italia?
 
Come dicevo, le ragioni per cui le scienze umane assumono questo dibattito sulla cronografia terrestre sono ragioni politiche.
Ma le dispute tra geologi, che sono ancora aperte e che riguardano la scelta di rivedere o meno la cronologia terrestre per dare conto del riscaldamento globale, hanno avuto una ricezione nelle scienze umane e sociali soprattutto a partire da un saggio del professore Dipesh Chakrabarty, che insegna a Chicago post-colonial e subaltern studies. Il saggio intitolato The Climate of History, pubblicato nel 2007 sulla rivista Critical Inquiry passava in rassegna molti testi divulgativi sull’ipotesi antropica del riscaldamento globale, formulando quattro tesi che vanno nel verso di una riorganizzazione delle discipline storiche in generale per far fronte alla comprensione di nuovi fenomeni come i processi di globalizzazione e di cambiamento climatico. I due fenomeni, pur essendo contemporanei – osservati e analizzati negli anni ’80 e ’90 – sono stati oggetto di un’attenzione differente. Fino al 2000 resta marginale l’attenzione dell’opinione pubblica al cambiamento climatico, nonostante le copiose pubblicazioni specialistiche e divulgative, contrariamente invece all’attenzione data alle analisi del fenomeno globalizzazione. Oggi, quando si parla di “riscaldamento globale” e “globalizzazione” sembra che i due fenomeni siano collassati in uno solo, prevedendo una situazione in cui si attribuisce alla produzione industriale, ormai estesa a tutto il pianeta, la conseguente crisi ambientale di cui il riscaldamento del pianeta sarebbe un sintomo unificante. Di là dalle flessioni nel dibattito pubblico, l’interesse della mia disciplina, che è la filosofia della storia, sta nel fatto che, secondo Chakrabarty, a questo punto di collisione tra politica industriale e organizzazione privatistica dell’ambiente non è più possibile dividere la storia umana e la storia naturale: non è più possibile dividere produzione industriale e conseguenze ambientali, o specie e impatto ambientale. In altre parole, vedere l’umano come agente consapevole e l’ambiente come materia passiva su cui avere un impatto, questo è diventato un modo ingenuo e desueto di vedere le cose. I dati sul clima e l’ipotesi antropogenica del riscaldamento globale dimostrano invece che nelle azioni umane, in tutte le azioni umane collettive, c’è già un’organizzazione dell’ambiente.
Finora questa organizzazione, o qualità naturale degli esseri storici, poteva essere considerata una capacità biologica, nel senso che i soggetti della storia, anzi, gli agenti della storia, restavano i corpi e il modo in cui i corpi vivono situazioni esterne mutevoli. Da questa storia del soggetto, mediata dalla biologia, che dall’Illuminismo in poi prevedeva un soggetto umano libero dentro e condizionato fuori, stiamo passando quindi a una storia della specie, mediata dalla geologia, che assegna quasi nessun potere alla volontà umana. Se il corpo individuale del soggetto moderno (che vale uno in virtù solo di se stesso, senza bisogno del corpo unificante del tiranno assoluto che ha ucciso nella Rivoluzione) se questo corpo individuale e individuato aveva un rapporto biologico con l’intorno, cioè determinato dalla disciplina della biologia da cui nascono anche i nostri concetti di ambiente, habitat, ecosistema, questo corpo era pure un soggetto kantiano che fa la storia, che converge spontaneamente nel farla e solo in base a questa ragione naturale e morale si poteva parlare di specie.
Di contro, nella storia della specie non solo non c’è convergenza spontanea degli esseri ragionevoli, ma non c’è alcun bisogno di organizzarsi socialmente per fare la storia marxista perché ogni interazione che abbiamo con gli altri è già un modo di organizzare il continuum storico-naturale. Nella storia della specie ci sono fenomeni spontanei di resilienza, migrazioni, moltiplicazione delle differenze che vanno ben al di là della possibilità di governare questi processi. Se ci resta la volontà di governare individualmente i processi collettivi, questa volontà è un retaggio inefficace del secolo passato. Chakrabarty, insomma, legge i dati e le pubblicazioni sul riscaldamento globale notando che le scienze naturali oggi ci dicono: mentre la nostra specie tra rivoluzioni democratiche, guerre di liberazione, decolonizzazione, credeva di lavorare a una libertà dalla dipendenza biologica con l’ambiente immediatamente circostante, in realtà, essa lavorava a formare una dipendenza più stretta e meno governabile dalla totalità del sistema Terra. Siamo diventati biologicamente più indipendenti da una necessità naturale “esterna”, ma geologicamente più esposti a una vitalità naturale diffusa.
 
Ripensare relazioni solidali
 
Dal rapporto con il sistema Terra difficilmente si possono trarre romantiche libertà infinite, ma si possono forse trarre diritti ambientali. Immagino i diritti ambientali come riconoscimenti di una situazione. Situazione è un concetto esistenzialista e femminista che indica una matrice comune a tutte le epistemologie della sofferenza trovate da più individui che non sono tanto un “soggetto politico” o giuridico (un partito, un nucleo familiare etc.) ma un’identità politica di relazioni solidali che abbiamo il compito di ripensare superando l’impressione che si tratti di gruppi non politici. I diritti ambientali riconoscono un’esposizione all’implacabile vitalità dei corpi naturali, a quel loro e nostro insieme di vulnerabilità e forza.
 
Dalla libertà alla “capacità geologica”: quali speranze ci sarebbero per l’homo sapiens?
 
Credo che attribuire un’agency alla specie, cioè una capacità geologica e politica, seppure involontaria abbia diversi effetti. L’Antropocene può essere l’epoca storica di questi effetti. Il primo effetto mi sembra stare nel fatto che la vita politica e i desideri di mutamento oggi non si pongano a livello dell’organizzarsi per -, o del resistere a – qualcosa, ma che il piano sia difendere la decisione presa collettivamente in situazione. Occorre creare e difendere luoghi di decisione collettiva nel momento in cui la situazione (ambientale ed esistenziale) rivela un’insorgenza della natura all’organizzazione sistemica del mercato. Il secondo effetto quindi è saper vedere le insorgenze naturali, che siano positive o negative per la vita umana, parlo di malattie, che è il caso più frequente, ma anche saper vedere le forme di vita che si riappropriano degli spazi dismessi, o quando si è rotto un argine di cui non abbiamo cura: quando accadono queste catastrofi intorno nascono anche nuovi assetti tra gli esseri umani, nuove forme di collaborazione e possibilità di naturalizzare quello che è percepito come ferite all’assetto precedente, e con questo istituire un diritto ambientale lì dove l’assetto precedente si è spezzato. Un altro effetto è riconsiderare il valore dei “rifiuti”, imparare a usare i rifiuti, gli scarti, imparare a vederli come materia al tempo stesso artificiale e viva.
La materia morta non esiste, è una visione imposta dal sistema di produzione e consumo. Lasciarsi meravigliare dalle possibilità di un mondo in cui niente è “rifiuto” ma tutto è insieme vitale, necessario e multiforme. Occorre avere un altro immaginario sui rifiuti che non sia di repulsione e abbandono. Queste sono paure tra le più profonde dell’umano e su queste passioni di repulsione e abbandono si esercita la tirannia del mercato. Per cui, abbiamo possibilità, più che speranze. Possibilità che vengono da politiche di sperimentazione: la spontaneità ingovernabile delle relazioni solidali, le sperimentazioni artistiche urbane, o di vita comunitaria. Ci sono molti luoghi in cui si ritiene inaffidabile la dottrina moderna della libertà con il suo meccanismo di democrazia rappresentativa e schiavitù finanziaria. Nei luoghi di matrice post-operaista c’è ad esempio una dottrina dell’eccedenza, o del possibile; nelle frange anarchiche o femministe ci sono esperienze di mutualismo. D’altra parte sono stati proprio geografi come Kropotkin a dare un’interpretazione del darwinismo non competitiva – meglio, non hobbesiana, sul piano sociale. Questi luoghi vanno seriamente difesi e presi a modello come fossero luoghi sacri eredi della spiritualità monastica e della mistica femminile, perché accettando una parte d’ideologia come base di comprensione reciproca si può fondare una legislazione più inclusiva sui diritti ambientali. Il lavoro di traduzione politica che voleva riconoscere ed estendere alla società civile lo statuto giuridico di queste esperienze marginali è un lavoro che è già stato fatto negli ultimi anni con il movimento dei beni comuni e della commissione Rodotà, innestata su di una rete di teatri occupati e riaperti, oggi di nuovo chiusi manu militari. Ecco, con la repressione di questo movimento e l’ignoranza di tutto il lavoro di traduzione fatto per riscattare la capacità di fare mondo che hanno i cittadini quando il pubblico e il privato si dileguano, credo che la specie, almeno una sua piccola parte italofona abbia perso un’occasione. La “capacità geologica” dell’Antropocene lascia credere che questo sia un fallimento inevitabile perché legato all’immanenza del sistema capitalista che alimentiamo semplicemente vivendo come facciamo.
 
Siamo all’inizio di un’epoca di crisi e mutamento
 
Siamo soltanto all’inizio di quest’epoca di crisi e mutamento nella relazione tra specie e ambiente, e almeno in Italia, un’epoca di feroce esclusione delle nuove generazioni dall’iniziativa pubblica e dalla circolazione della moneta. Per cui, per far maturare nuove convivenze tra specie e ambiente in un senso di giustizia ambientale, le situazioni che ho citato reclamano un correttivo di libertà moderna. Anche studiosi di human ecology in genere più fiduciosi nella spontanea riconversione delle città in smart cities, o nella resilienza spontanea verso la decrescita come Àgnes Sinaï, ammettono che il passaggio dalla civiltà del carbone alla civiltà solare, la più grande posta in gioco di una lettura non catastrofista dell’Antropocene, non possa accadere senza una committenza statale.
Eppure al momento i paesi del sud dell’Europa che potrebbero guidare questo processo si trovano esautorati dalla decisione politica, proprio a livello statale. Sono costretti a svendere i beni immobiliari che potrebbero invece trovare un uso comune, l’iniziativa di una politica energetica sulle rinnovabili è affidata ai privati, non ci sono progetti che ad esempio trasformino i distretti industriali come Taranto, Marghera, Bagnoli verso la produzione di energia solare, mentre spesso le centrali s’installano nei campi coltivabili non più redditizi.
Viviamo l’impasse di non poterci aspettare una committenza statale perché siamo alla fine dello Stato-nazione, ormai celebrata da trent’anni, ma questa committenza continua a sembrarci l’unica via. Ci serve immaginazione politica. Si tratta d’individuare collaborazioni tra i privati, o tra enti, privati, associazioni, cooperative, partenariati internazionali che possano diventare alleanze per eludere il ricatto del sistema bancario e iniziare la riconversione. È un gioco per niente eroico o militante, ma richiede “il lavoro dell’acqua”, erosione costante goccia a goccia. Nel dibattito sull’Antropocene mi ha colpito proprio un’idea simile di libertà finita, cioè non finalizzata a un obiettivo. Non è libertà di fare qualcosa, né libertà di essere in un certo modo, ma la condizione dei corpi senzienti che in ogni azione si creano e si distruggono il proprio corpo-ambiente. È tempo che l’oscillazione tra creazione e distruzione – la radice dell’umano, in quanto contiene possibilità di vita e possibilità di morte – non sia più divisa tra un polo creativo e produttivo, e un polo distruttivo, che al massimo abbiamo finora chiamato improduttivo e deleghiamo ad altri e che non vogliamo vedere.
La libertà infinita ha messo la creatività e la produttività dalla parte del bene, la distruzione e l’improduttivo dalla parte del male, ma questa divisione nella morale non regge più e c’impedisce di trovare soluzioni nuove nella crisi. La libertà infinita trasforma l’ambiente in una risorsa da estrarre, e la risorsa, è per sua natura infinita, si usa fino all’esaurimento, finché non smette di essere risorsa e diventa rifiuto. La libertà infinita appartiene all’ideologia neoliberista: è questo infinito regresso della finanza alle condizioni rinegoziabili del contratto. La libertà finita, invece, ha qualcosa del trauma e niente del romantico sconfinamento, o superamento, tutte forme di “sentimento oceanico” direbbe Freud per mascherare il desiderio di ritorno al grembo materno. Se il regresso all’infinito della vendibilità dei titoli azionari o l’ascesa infinita della crescita economica vengono da questo desiderio umano troppo umano di far tornare a coincidere il proprio corpo con il corpo del mondo, la libertà finita invece è maturità di accettare i traumi della nascita e insieme, delle catastrofi naturali.
 
Il rapporto tra l’homo sapiens e l’ecosistema: qual è il comportamento della specie umana?
 
Ho trovato per la prima volta un accenno alla libertà finita nel libro di Sebald, Storia naturale della distruzione, e lì era usato per descrivere il trauma della guerra aerea che aveva distrutto le città tedesche: uno stato creaturale, totalmente fisico, in cui l’umano perde l’ambiente biologico e il Leib, “il corpo proprio” di Husserl, diventa l’unico ambiente, non più vita nell’ambiente ma ambiente fisico a sé stante. Questo ci fa vedere che la relazione uomo-ambiente nella filosofia contemporanea è in realtà sempre una co-produzione di corpo e ambiente insieme, del “corpo proprio” e del suo guscio relazionale. E soprattutto, lo studio di Sebald mostra che distrutto il guscio relazionale non c’è un privilegio della specie umana che poi qualcuno chiama linguaggio, o coscienza e che ci rende diversi dalla povertà di mondo degli animali. Riconoscere questo stato creaturale è fondamentale, perché l’idea del dominio sulla natura che ha trasformato il pianeta in una sequenza di fabbriche, metropoli e discariche si fonda sul privilegio della specie umana su tutte le altre.
Se l’emancipazione ha pian piano cercato di erodere prima il privilegio censitario, poi il privilegio maschile, poi la supremazia bianca, oggi il posto d’onore al vertice della “naturale” piramide cosmica si pensa a livello di specie e questo rapporto verticale tra i viventi dev’essere contestato. Dalla polarità negativa dei trauma studies la libertà finita si può vedere anche con una polarità positiva. Chakrabarty la descrive come agency geologica – ed agency nella filosofia politica anglosassone significa potere politico, potenza di agire, limiti dell’azione, relazione di gruppo – ma forse è più radicalmente la “facoltà dell’inizio” di Hannah Arendt che bisogna tenere presente.
Il privilegio che il paleontologo Niles Eldredge ancora ascrive alla specie umana, di essere l’unica “globalmente integrata” attraverso il circuito di circolazione delle merci, rete che ne conferma l’essenza di ecosistema globale per tutte le altre specie localmente finite, assume certamente la capacità della specie umana di prodursi sempre come un’organizzazione dell’ambiente naturale, ma riprende questa caratteristica in un sistema gerarchico che resta un’ideologia politica a priori. I problemi che sorgono qui per il senso del fare o scrivere una storia, ma soprattutto per il senso del fare o scrivere un’ecologia politica che abbia la specie come suo soggetto/oggetto sono: che questa produzione di ambiente per la maggior parte del nostro tempo è inconsapevole (involontaria, inconscia); in secondo luogo, essa dipende da una potenza di agire che appartiene alla specie (un collettivo che non è politico, ma attraversato da disuguaglianze preponderanti di razza, genere e classe). Così, se il comportamento umano sia libero o meno, questo sembra non si possa dire sulla base della specie: sarà libero per alcuni, non libero per altri. Ma l’insegnamento dell’Antropocene è diverso: riafferma che il comportamento della specie è una libertà finita anche per i privilegiati, perché quella libertà politica prodotta con l’emancipazione dai “bisogni naturali” ha stabilito da una parte una dismisura tra risorse e popolazioni, dall’altra un impoverimento generale che rende i privilegiati talmente pochi da essere irrilevanti per il comportamento della specie.
 
Qual è il compito della filosofia contemporanea?
 
C’è una ragione imperante nella società contemporanea, ed è quella che spiega ogni condotta umana nei termini del massimo profitto con il minimo sforzo. È la ragione dell’homo economicus: l’individuo che va al mercato. Non appena con la mente cerchiamo una rappresentazione a questo motto del “massimo profitto con il minimo sforzo” si materializza immediatamente l’idea che il “profitto” equivalga al denaro e lo “sforzo” sia un lavoro. Questa ragione imperante collega subito l’energia umana, i risultati del suo fare, delle sue interazioni, dei suoi scambi, alla relazione del mercato. Il mercato – lo sappiamo già, ma l’imperativo al consumo ce lo fa dimenticare presto – è soltanto una tra le tante esperienze che compongono la nostra vita. Il mercato è una relazione umana in cui si scambia denaro, ma, oltre a questa, siamo con gli altri in altrettanti modi di relazione: abbiamo passioni, anzi, siamo corpi in relazioni affettive, o collaborative, anche competitive spesso con grande sforzo e nessun profitto.
In altre parole: l’homo economicus alla base dei comportamenti nel mercato è la selezione di un certo tipo di relazione e di un certo tipo di economia. Questa relazione specifica è lo scambio a mezzo denaro, la principale forma di relazione che appartiene a un capitalismo in crisi proprio perché il denaro non circola abbastanza velocemente da raggiungere lo scopo del sistema, cioè la crescita del vettore di accumulazione. Se capitalismo sembra una parola tirata fuori da un dizionario della DDR, si può dire neoliberismo, oppure ordoliberismo, finanza creativa, anche solo mercato, ma teniamo a mente che ci sono tantissime condotte umane che ne sono escluse e sono condotte antieconomiche, che sono ugualmente necessarie allo sviluppo della vita, mentre questa ragione imperante spesso richiede un adattamento che la distrugge. Come si distribuisce il profitto? Che ambiente si stabilisce nel lavoro? L’arte non nasce dalla parsimonia; la sperimentazione scientifica, la gara sportiva, queste cose richiedono un grande sforzo per ottenere risultati più che incerti. Risultati poi che hanno un valore sociale. Filosofie del linguaggio come quella di Luisa Muraro, da cui attinge l’economista Christian Marazzi, ad esempio, mettono a fuoco proprio la molteplicità delle forme di relazione e il problema che ne viene fuori: come far circolare, riconoscere, anche remunerare il valore sociale delle nostre attività che cadono fuori dal mercato?
Non è un problema nuovo, ma è un problema legato a doppio filo con la crisi ambientale. Era un problema che veniva fuori già negli anni ’70 ad esempio, nelle lotte per il salario alle casalinghe, nel dibattito se la cosa migliore per risolvere la schiavitù domestica fosse condividere il lavoro domestico, oppure farlo riconoscere attraverso un salario. Oggi c’è una lotta molto dura per i diritti ambientali o per il diritto alla città e, di nuovo, sono le responsabilità legate alla cura, che di fronte al mercato sono antieconomiche, a non essere oggetto di valorizzazione morale, estetica e sociale. Come occuparsi dei rifiuti, delle spiagge, dei boschi, dei luoghi dismessi senza finire disoccupati? Tra la gente spuntano fuori risposte come “il Comune”, un po’ di meno, “lo Stato”, in genere “la politica”, ma spesso qualcun altro diverso dalla propria capacità (o potenza, libertà, agency) politica. Bisogna andare alla radice di queste risposte e il compito della filosofia contemporanea è fare questo.
 
Contro la logica dell’egoismo
 
Se la politica è serva dell’economia di mercato, e finisce per svolgere unicamente la funzione di far ingoiare il rospo, di rendere accettabile per i cittadini una decisione già presa da chi è forte sul mercato (con tutte le gradazioni comprese tra ignoranza, omissione, inganno, persuasione, fino al consenso) si elimina dall’attività umana tutto quello che ha valore sociale senza equivalenti, tutto quello che non si può scambiare perché ha a che fare con la storia delle persone e la storia dei luoghi. Il desiderio che immagina come riqualificare un luogo, progettare giardini o incontrare amici, questi ad esempio sono desideri che hanno “un di più” non cumulabile; il desiderio umano di dare inizio alle cose, chiamato da Hannah Arendt facoltà dell’inizio – cioè, pensare alla nostra capacità di nascere ed essere nati, piuttosto che quella di morire e finire, che l’ontologia del ‘900 ha messo al centro della sua decadente riflessione – questa forza del novum è spreco, eccedenza, fuori misura; non “spesa folle”, ma la forza di ciò che non posso misurare con il denaro perché ancora non esiste, è da inventare. Sono contrarie alla parsimonia e all’accumulazione del denaro anche tutte le energie quotidiane richieste in prima persona per far vivere le cose e le persone che hanno bisogno di cure. Ed è qui che veniamo a un altro punto. Che rapporto c’è tra l’agire in prima persona e il piacere individuale?
Riprendiamo l’individuo che va al mercato. Nell’economia liberale egli/lei persegue una logica in cui la giustizia si trova nella scelta più immediatamente vantaggiosa: “massimo profitto con il minimo sforzo”; a breve termine e in un colpo solo. Questa logica “massimo profitto con il minimo sforzo”, un’esperienza tra le tante possibili, trova la misura della giustizia calcolando: cosa dà più velocemente un piacere individuale? Mi ritrovo a fare questo calcolo in uno spazio astratto, immagino altri e altre che, come me, fanno lo stesso calcolo, nello stesso momento. Cosa può darmi piacere il più velocemente possibile? È uno spazio di competizione universale in cui sarebbe normale esser così e comportarsi così. È un ragionamento per moltiplicazione di se stessi. Non solo sarebbe normale ma legittimo e giusto. Bene. A mente fredda, questo calcolo del piacere più veloce e immediato, che sarebbe la norma per decidere di ogni politica è in realtà il frutto della più completa mancanza di logica. È un regresso nell’impazienza infantile del voler tutto subito; è un comportamento che non accetteremmo mai dal vicino di casa, ma che accettiamo in toto quando diventa ragione imperante. Perché allora accettiamo che la moltiplicazione munifica di se stessi, con tutta la sua solitudine e le passioni tristi, sia la forma più giusta di relazione? Perché ne incoraggiamo la crescita? Cosa ne deriva?
Secondo me, questo spazio d’immaginazione dove mettiamo in scena ad hoc una competizione di tutti contro tutti mostra pure un’immaginazione ristretta. Identificare la natura umana con l’esperienza del mercato, e ridurla a questo, sicuramente convince a lavorare di più, o a desiderare il lavoro anche quando significa svolgere un compito inutile, ma andiamo oltre quest’orizzonte di esperienze limitate e mancanza d’immaginazione.

Oltre la logica del profitto che diventa la misura per tutto, oltre il piacere regressivo del mercato e la poca fantasia nel vivere, la filosofia, (alcune filosofie), possono dare strumenti per combattere questa ragione imperante che tra l’altro vuol farci pagare anche il prezzo della sua crisi. Come? Dando valore, e facendo vedere prima di tutto attraverso la nominazione tutte le altre esperienze e modi di relazione che esistono al di fuori, o accanto al mercato, e che tuttavia non fanno parte della ragione imperante. Quando parliamo dei diritti ambientali guardiamo a queste esperienze che non si possono scambiare unicamente attraverso il denaro. Non posso comprarmi la storia di un luogo, o i doni che mi fa qualcuno, o il supporto di chi mi conosce da una vita. Non esiste un premio sufficiente per risarcire i rifiuti tossici nella Terra dei Fuochi (o in quelle terre dei fuochi che sono le periferie delle città), o la costruzione delle grandi opere (a uso di pochi, come in Val di Susa), o la svendita delle coste al turismo usa e getta, o dei beni demaniali per pagare i debiti alle banche.. Filosofia contemporanea significa saper vedere l’alterità, l’alternativa che cresce nella cultura materiale e nella situazione politica che abbiamo intorno e di cui facciamo parte, che se ne abbia coscienza o meno. Ma se non serve a dare anche strumenti per realizzare un progetto di etica, di vita condivisa, allora “filosofia” non è affatto pensare quella capacità dell’inizio (Hannah Arendt), o della forza nella costanza (Angela Putino), ma si tratta solo d’imparare una disciplina che semplicemente riproduce un’istituzione anche un po’ parruccona, oppure, nel migliore dei casi, diventa una passione antiquaria.

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