L’ “Era della diminuzione” ci fa belli

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Dopo le catastrofiste previsioni di aumento inarrestabile della popolazione terrestre, la corsa sta rallentando. Siamo ancora molti sulla Terra, ma se fossimo di meno, sembreremmo più belli? Mi riferisco al proverbio napoletano «meno siamo e più belli sembriamo» e, poiché c’è una evidente tendenza alla diminuzione, possiamo domandarci se saremo o saranno o, almeno, sembreremo  più belli? È un quesito epocale che non ha una sola dimensione territoriale, la Terra e la sua popolazione, ma che si pone a tutti i livelli e alle diverse scale: continentale, nazionale, regionale, comunale.

La decrescita, vocabolo il cui uso superficiale in economia sta subendo intelligenti revisioni dai suoi stessi inventori; la decrescita che, in termini di riduzione del PIL provoca angoscia nel nostro e negli altri Paesi dell’eurozona e non solo, ignorando che alla gente comune interessa poco che il PIL cresca mentre vorrebbe maggiori e migliori servizi e un più agevole accesso al soddisfacimento dei bisogni essenziali, valutando in questo modo la sua qualità di vita quotidiana; la decrescita il cui opposto –boom demografico- ha provocato per decenni viva preoccupazione in quanti, dissipatori di risorse altrui, hanno cominciato a temere che presto non ce ne sarebbe stato per tutti; la decrescita demografica è oggi un fatto concreto. Tre anni fa ci invitava ancora una volta a questa riflessione Giuliano Cannata (Si spegne signori, si chiude. L’era della diminuzione, XL edizioni, Roma 2009). In quell’occasione l’ingegnere antropologo individuò l’inizio dell’era della diminuzione come un momento nel quale «improvvisamente fu chiaro che la specie umana si prendeva il controllo cosciente del suo destino, perché stava cominciando a ‘scegliere’ tra le strade biforcate sulle quali l’aveva sempre lanciata il caso, nella lunga storia dell’evoluzione della specie, tutta e ciecamente casuale in senso biologico». Ora Cannata, in Dizionario dell’estinzione. Il mistero delle nascite nell’era della diminuzione (NdA Press 2012), riprende e approfondisce il tema del “rifiuto a procreare”. Insomma, dopo aver vinto la competizione per la conquista del cibo e dello spazio, dopo essersi moltiplicata alla follia e aver raggiunto elevati livelli di benessere consumando a suo piacere quasi tutto il pianeta, la specie umana ha deciso di non crescere più, predisponendosi alla diminuzione.

 

Dove porterà la decrescita della specie?

Dunque ci si avvia a essere meno. Ci saranno minori e decrescenti pressioni sul cibo, sullo spazio, sulle risorse in genere; minori file agli sportelli; meno auto in circolazione; più acqua per tutti; minore inquinamento: un ambiente più e meglio vivibile per una umanità che va, più o meno inconsciamente, verso l’estinzione.

La riflessione, come dicevo, va fatta a scala planetaria, ma ha possibili interpretazioni e conseguenze già su scala locale: in Italia nel complesso, in alcune regioni e città in modo ancora più visibile. Dove, cioè, è evidente e registrato dall’ISTAT il calo dei residenti parzialmente attutito dall’arrivo di emigrati. E dove si discute sulle conseguenze della progressiva riduzione di taglia demografica e sul conseguente riflesso sulla dimensione economica, sociale, culturale, funzionale, ovvero di ruolo e di influenza.

Nelle varie riflessioni che questa situazione induce c’è, poi, un altro non trascurabile aspetto sul quale bisogna soffermarsi e riguarda la “taglia” dei servizi da offrire a una popolazione che, in quanto in diminuzione, ne chiederà di meno e, in quanto sempre meno giovane, ne chiederà di diversi.

Per esempio, ma non è un esempio preso a caso, quante abitazioni saranno necessarie per soddisfare la “fame” di case?

E i parchi urbani, quelli esistenti e quelli che si dovessero auspicabilmente aggiungere, conterranno meno scivoli e dondoli e più campi bocce? E saranno meno parchi verdi tradizionalmente intesi e più orti sociali da affidare alla cura di non più giovani?

Leggo due titoli con riguardo al Paese Italia: Qui è di casa la bolla. Più di 700.000 appartamenti nuovi non trovano compratori (“L’espresso” 4 ottobre) e Buzzetti: ‘La bolla non c’è, mancano 600.000 case’(“Affari e finanza” di “Repubblica” 1 ottobre). È evidente che se si dovessero costruire le 600.000 case che il presidente dell’Associazione Nazionale Costruttori Edili ritiene mancanti e mancanti non fossero ci troveremmo di fronte a un brutto problema di esuberi. Il tutto, probabilmente, perché nel tentativo di pianificare il futuro incontro tra domanda e offerta di abitazioni, non si fanno i conti con il decremento demografico e la conseguente riduzione della domanda solo scarsamente “sostenuta” dagli immigrati.

Vale anche per tutte le città nelle quali si invoca ripetutamente la necessità di soddisfare la fame di case ignorando che la popolazione diminuisce e che quasi dovunque esiste tuttora un discreto patrimonio di abitazioni non utilizzate. Ma ristrutturare il vecchio costa più che costruire il nuovo. Anche perché nel calcolo non entrano mai i costi di urbanizzazione e della sottrazione di spazio.

Sottrazione di spazio alla già tartassata agricoltura.

Allora non dico di trasformare gli edifici in orti come in Giappone, dove ogni centimetro quadrato deve essere utilizzato al meglio; ma il discorso degli orti sociali è serio e con serietà va affrontato. Non solo per far passare il tempo ad anziani e disoccupati, ma anche per affrontare in modo concreto e vincente il raggiungimento dell’obiettivo “chilometri zero” per molti alimenti ortofrutticoli che arrivano sulle nostre tavole.

Insomma se diventiamo meno potremo anche sembrare più belli e la cosiddetta “decrescita felice” potrà trovare un concreto riscontro nella realtà.

19/10/2012

Ugo Leone

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