Rottamare nell’epoca della dematerializzazione

rottame

Sulla rottamazione si può costruire un impero. Il mondo “de materializzato” ha sempre bisogno di acciaio.

Nuove parole entrano continuamente nel vocabolario: una di questa è rottamare e rottamazione. L’origine più recente viene dal fatto che, per aumentare le vendite delle automobili, i governi hanno stabilito che chi si libera di una vecchia automobile e ne compra una nuova riceve un contributo con pubblico denaro. Ma come può una persona “eliminare” una vecchia automobile? Dandola a speciali ditte che procedono a smantellarle, a recuperarne i rottami metallici e altre parti vendibili. Una volta queste imprese, per lo più piccoli artigiani, si chiamavano con termine poco rispettoso, “sfasciacarrozze”, ma in realtà oggi le imprese di rottamazione sono importanti e anzi hanno un ruolo “ecologico” nelle operazioni di riciclo. I venditori di automobili sono stati abbastanza contenti del risultato e sono stati imitati dai venditori di motociclette (un premio in denaro a chi butta via la vecchia motocicletta e ne compra una nuova) e poi da altri settori. Se vi è un numero eccessivo di negozi in una strada, alcuni sono incoraggiati a “rottamare” il negozio, cioè ricevono un premio con pubblico denaro se chiudono l’attività.

Rottami e società

In questo modo il termine rottamazione ha vissuto una nuova giovinezza e ci si è dimenticati che i rottami e il loro riciclo hanno avuto un posto importante nella storia della tecnica e anche della società italiana. La rivoluzione industriale, fin dai primi anni dell’Ottocento, è stata basata sul ferro e l’acciaio, anzi è nata quando sono stati inventati dei metodi rapidi, efficienti ed economici per trasformare il minerale di ferro, che la natura offre in varie zone in forma di ossido di ferro, dapprima in ferro greggio (la ghisa), e poi in una speciale lega di ferro molto resistente che è stata chiamata acciaio.
Acciaio voleva dire cannoni, corazze per la guerra, ponti e poi macchinari per l’industria tessile e meccanica, e poi locomotive e rotaie ferroviarie e poi navi: insomma tutto quello che era industria e “industrializzazione” e progresso. Il successo dell’acciaio, già nella prima metà dell’Ottocento, fu così grande che ben presto nei paesi industriali cominciarono ad accumularsi rottami e fu necessario inventare dei processi per ottenere nuovo acciaio da tali rottami. Il primo successo si ebbe a partire dal 1864 con il forno Martin-Siemens che forniva acciaio fondendo insieme la ghisa con rottame. I forni Martin hanno dominato l’industria siderurgica fino alla seconda guerra mondiale. Nei primi decenni del Novecento sono stati inventati dei forni in cui il rottame di ferro poteva essere fuso da solo mediante il passaggio di una corrente elettrica e trasformato in nuovo acciaio. Ma la vera grande svolta nel recupero dei rottami si è avuto dopo la fine della seconda guerra mondiale, nel 1945.

Il boom del Bresciano

Gli Americani, tornando nel loro paese, hanno lasciato in Italia montagne di residui, in molti casi sotto forma di macchinari, autoveicoli, natanti, motociclette, quasi nuovi, ma anche residui e rottami di materiale bellico, ricchi di metalli preziosi. Acciaio, ma anche cromo, nichelio, rame. Il governo organizzò il ricupero e il commercio di queste scorie di guerra creando addirittura un ente pubblico denominato ARAR (Azienda Rilievo Alienazione Residuati) la cui presidenza, per essere certi che non avvenissero speculazioni e furti, fu affidata a Ernesto Rossi, patriota e moralista per eccellenza.
Nel periodo fascista la siderurgia italiana era stata basata su pochi grandi impianti a ciclo integrale: Bagnoli, Genova, Piombino, Terni, buoni per fare cannoni e corazzate. La ricostruzione aveva bisogno di tondino di ferro per l’edilizia e il rottame ha alimentato la nascita di una nuova siderurgia, basata sulla fusione del rottame in piccoli forni elettrici sparsi in gran parte nelle valli del Bresciano.
Ciò è stato reso possibile dai perfezionamenti tecnici dei forni elettrici e dalla disponibilità, nelle valli alpine, di energia idroelettrica. Si è formata così una nuova generazione di imprenditori, spesso operai, ben presto diventati piccoli (o talvolta) grandi padroni. Gente che affittava palombari che demolivano sott’acqua le navi affondate in guerra, che correva in Austria, Svezia, America, per trovare le tecniche di fusione più economiche ed efficienti.

I padroni del tondino

È nata la classe di quelli che l’imprenditoria snob chiamava “i tondinari”, anche se uno di questi, Luigi Lucchini, sarebbe diventato presidente della Confindustria. Ai lettori curiosi raccomando la lettura di una storia di questa pagina del lavoro e dell’impresa, raccontata nel libro di Giorgio Pedrocco: Bresciani. Dal rottame al tondino. Mezzo secolo di siderurgia (1945-2000), pubblicato dalla Fondazione Micheletti di Brescia presso l’editore Jacabook di Milano.
In questo mondo contrabbandato come virtuale e dematerializzato è bene, a mio parere, ricordare che il mondo va avanti con lamiere, fili e travi di acciaio, con metalli e leghe e macchine continuamente perfezionati e fatti col lavoro, l’abilità, il coraggio, l’innovazione.

Giorgio Nebbia
nebbia@quipo.it

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