Intervista a Roberta Pellegrini, direttore dell’Associazione Stampa Subalpina

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Roberta Pellegrini è direttore dell’Associazione Stampa Subalpina, sindacato dei giornalisti del Piemonte, di cui cura anche il sito www.stampasubalpina.it e la pagina Facebook, www.facebook.com/stampasubalpina.
Giornalista, ha cominciato a scrivere nel 1984 su “La Voce del Popolo”, ha lavorato per anni al “Corriere di Chieri” ed ha collaborato con diverse testate locali e nazionali.

1) Potresti presentare brevemente l’Associazione Stampa Subalpina a chi, eventualmente, non la conoscesse?
La Subalpina è l’associazione dei giornalisti piemontesi. E’ nata 115 anni fa, nel 1899, nello stesso anno di Hemingway e di Hitchcock, Al Capone e Fred Astaire. Ed è nata con un obiettivo sindacale: contrastare il “proletariato giornalistico”, che riguardava quanti  lavoravano mal pagati nelle redazioni e per le testate di allora. Non che oggi sia di molto migliore la condizione di tante colleghe e colleghi. Se ripercorriamo la storia, ma proprio la storia dell’umanità, ogni conquista sindacale, civile, va continuamente difesa e semmai riguadagnata.
Con le altre associazioni regionali di tutt’Italia la Subalpina forma dal 1908 la Federazione nazionale della stampa. Che si affianca all’Ordine dei giornalisti, nato nel 1963. In Piemonte la prossimità è anche fisica: siamo dirimpettai nella “casa dei giornalisti”, a Palazzo Ceriana Mayneri. Lavoriamo insieme per la qualità dell’informazione. Ognuno nel suo ambito. L’Ordine si interessa dell’iscrizione all’Albo, del rispetto dei doveri deontologici, della formazione. La Subalpina si preoccupa del percorso lavorativo dei giornalisti, dei contratti di lavoro, della tutela sindacale e legale dei diritti. E si occupa anche di pensioni, di disoccupazione, di previdenza (Inpgi), di assistenza sanitaria integrativa (Casagit).

2) In che senso l’Albo Professionale rappresenta, oggi, un punto di forza per ‘disciplinare’ la professione stessa nelle sue grandi varietà?

Tengo a precisare che, pur essendo direttore della Subalpina, queste sono le mie opinioni e non esprimono in alcun modo la posizione né ufficiale né ufficiosa dell’associazione. Credo che l’Albo professionale negli anni abbia perso la sua forza nel disciplinare l’accesso alla professione, la permanenza nell’albo stesso, e nel vigilare sul rispetto della deontologia. I sintomi sono l’ “ipertrofia” degli scritti (110mila in Italia, tra pubblicisti e professionisti, davvero troppi, anche per il mercato, che infatti non li assorbe e può permettersi di pagarli sempre meno) e, diciamo, la trasandatezza professionale di taluni di questi, che non trova all’interno della categoria il biasimo che invece raccoglie – a palate – all’esterno.

La riforma dell’Ordine appena introdotta ha portato due elementi rilevanti per il recupero sul terreno della professionalità: i Consigli di disciplina e la formazione continua obbligatoria per gli iscritti. Ma manca ancora un accesso universitario alla professione, e lo dico da non laureata: oggi l’esercizio e, prima ancora, il riconoscimento di una professione liberale non possono prescindere da una laurea e da una specializzazione.

Ultimo, ma più importante: il tratto decisivo per un Ordine forte e credibile penso che sia la perfetta corrispondenza, o almeno la più inequivocabile, tra chi giornalista è, per iscrizione agli albi, e chi il giornalista fa, avendo un impegno effettivo e continuativo nel mondo dell’informazione.

3) In questi ultimi anni ci sono molti seminari, corsi di formazione che hanno come oggetto il mondo dell’informazione; iniziative molto importanti che potrebbero innovare e incrementare il numero degli iscritti. La partecipazione è risultata soddisfacente?

Proprio da gennaio di quest’anno la formazione è diventata un obbligo. Già negli anni scorsi la Subalpina aveva proposto brevi corsi molto pratici (sull’uso professionale della voce, ad esempio, o su come filmare e montare un video con taglio giornalistico), che hanno riscosso un buon successo. Si lavora sempre più fuori dalle redazioni, da freelance, semmai isolati: le occasioni di confrontare le proprie conoscenze, le proprie opinioni, le proprie tecniche credo siano davvero attese dai colleghi, e benvenute.

I corsi di formazione avviati dall’Ordine, e ai quali la Subalpina ha affiancato alcune sue proposte, stanno registrando grande affluenza, e non solo per via dell’obbligatorietà.  Piano piano anche tutti i meccanismi della formazione continua, inevitabilmente un po’ disagevoli in fase di rodaggio, stanno andando a regime. E immagino che la qualità delle iniziative proposte, unita all’attenzione di molti colleghi per l’aggiornamento, potrà andare a tutto vantaggio di un giornalismo più consapevole, che guarda avanti.

4) La Biblioteca del Centro Pestelli, ora nel Palazzo Ceriana, è indubbiamente un punto di forza per tutti gli iscritti,  professionisti, pubblicisti, praticanti. Che cosa possiamo trovare nella Biblioteca?

E’ stato un ritorno a casa, quello del Centro Studi Gino Pestelli: fu costituito ufficialmente nel 1968, ed ebbe come prima sede proprio l’Associazione Stampa Subalpina, nel Palazzo di corso Stati Uniti. Lo scopo era quello di promuovere studi sulla storia del giornalismo e sui problemi dell’informazione; il risultato fu una biblioteca intitolata a Gino Pestelli, condirettore de La Stampa dal 1926 al 1928 e artefice dell’Ufficio stampa della Fiat.

Oggi il Centro è presieduto da Roberto Antonetto; coordinatore scientifico è Valerio Castronovo. La biblioteca conta 5.500 volumi, in consultazione, per la cui disponibilità si può consultare www.librinlinea.it . Mentre per approfondire la conoscenza sul Centro si può visitare il sito www.centropestelli.it

5) Anche per i “free-lance”, oggi, c’è l’obbligo di un corso di deontologia on line presso l’Ordine dei Giornalisti. Anche questa è una nuova iniziativa. Quale finalità ha? E in che modo sono utilizzabili i crediti che essa comporta per i partecipanti?

Obbligo di formazione continua per tutti, pubblicisti e professionisti, freelance e redattori contrattualizzati. E con particolare attenzione alla formazione deontologica, che significa, sì, imparare a riflettere sull’uso del termine “clandestino” rispetto a “immigrato” o “rifugiato”. Ma più ancora significa padroneggiare i confini e le prerogative del Quarto e Quinto Potere.

Partecipando agli incontri inseriti nel calendario della formazione si acquisiscono crediti, almeno 15 all’anno, meglio se 20, dovendone totalizzare 60 nel triennio, pena una sanzione disciplinare. Tutte le informazioni, compreso un corso di deontologia online che vale 10 crediti, si trovano su www.odg.it/content/formazione-continua

6) In un tuo vecchio articolo (“La giornata di una cronista tra nera e computer”, “Stampa Subalpina, marzo 1994,n. 1, p. 6), dopo aver parlato della formazione classica, dici che a dodici anni hai deciso di diventare giornalista; dunque sembra che non sia stato l’orientamento delle materie umanistiche al Liceo Classico a farti maturare questa vocazione professionale, anche se l’ha consolidata. Ci racconti il tuo percorso, la tua formazione giornalistica?

Tutta colpa della professoressa Bernabò, mia insegnante di lettere alle scuole medie. Nelle vacanze estive dovevamo leggere e recensire libri. A 12 anni inciampai in Oriana Fallaci, “Niente e così sia”. Praticamente una folgorazione. Per dire: quell’estate avevo anche letto l’autobiografia di Christiaan Barnard, il chirurgo del primo trapianto di cuore, però non mi aveva così avvinto.

Ho conseguito la maturità classica al liceo “Alfieri” di Torino e subito ho iniziato a collaborare assiduamente con “La Voce del Popolo”, Telesubalpina e il notiziario Aspe del Gruppo Abele. Mi iscrissi all’Università, filosofia: mai laureata. Allora si lavorava fisicamente in redazione, gomito a gomito con i colleghi più esperti, dai quali si apprendeva inesauribilmente. Le tecniche, le malizie. Ti dicevano loro dove, quando e come fare la domanda di iscrizione nell’albo; ti insegnavano che cosa era una notizia, come si scriveva un buon “attacco”. E tra un caffè e una battuta impartivano lezioni estemporanee di educazione civica e diritto, di deontologia e scrittura.

7) Qual è stata la collaborazione alla testata giornalistica che ricordi con maggiore entusiasmo? E nella tua esperienza di cronista di nera, qual è stato il caso che più ti ha coinvolta?

Non è una risposta diplomatica: ho davvero tanti ricordi belli di tutte le redazioni in cui ho lavorato. Ovviamente “belli” è una media nella graduatoria dei ricordi che va da “meravigliosi” a “orrendi”. La Voce del Popolo, Telesubalpina, Aspe, il Corriere di Chieri, il Corriere di Moncalieri, l’Ansa, la Gazzetta di Venaria, l’Osservatore di Beinasco, l’edizione Nord Ovest del Sole 24 Ore, e altre testate ancora: ho avuto la fortuna di poter continuare ad imparare sempre, in tutte le diverse realtà e circostanze.

Cronista di nera lo sono stata per 7 o 8 anni, al Corriere di Chieri. Arrivavo da tutt’altra formazione. Sul teatro del “mio primo delitto” – l’omicidio Francese, a Poirino –  fu il fotografo a imbeccarmi: imbambolata, non riuscivo a spiccicar domande. Gli omicidi successivi “andarono meglio”. Molti casi mi appassionarono: il furto della “testa” di San Giorgio, l’omicidio mai risolto di Cosimo Giangrande, la rapina al pub di viale Fasano finita nel sangue. Capitolo un po’ plumbeo, ne convengo. Per alleggerire, mi piace ricordare una “articolessa”, un “feuilleton” più che un articolo, sulle “cascine dell’orrore”: andai a ricostruire i crimini celebri avvenuti nelle campagne chieresi tra fine Ottocento e gli Anni Cinquanta. Il direttore mi aveva commissionato l’articolo; poi lo lasciò per settimane “in ghiacciaia”, sostenendo che fosse “un pezzo troppo bello per essere pubblicato”. Scherzava, voleva dire che aspettava uno spazio e una occasione adeguata, come poi fu, ma ancora oggi mi diverte l’idea di un articolo troppo bello per essere pubblicato…

 

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L’autrice Tiziana Carena

 

 

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