Il creato e le vie di comunicazione, vecchie e nuove

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Al decimo “Forum dell’informazione cattolica per la salvaguardia del creato”, organizzato da Greenaccord, oltre 100 giornalisti ambientali si sono confrontati sul rapporto tra territorio montano e vie di comunicazione, antiche e moderne, quali motori di trasformazioni storiche, economiche, ambientali, tecnologiche, sociali e culturali.

 Dieci anni di Greenaccord, celebrati ancora una volta a Trento, dove dal 27 al 30 giugno oltre cento giornalisti ambientali di testate nazionali, regionali e locali hanno dibattuto del rapporto tra territorio montano e vie di comunicazione, antiche e moderne, quali motori di trasformazioni storiche, economiche, ambientali, tecnologiche, sociali e culturali.

L’area dolomitica non può che essere lo scenario ideale per approfondire l’argomento: la montagna, infatti, impone il superamento di ostacoli per incontrare nuove genti e sviluppare relazioni. E le Dolomiti, in particolare, sono quasi un simbolo della sensibilità ecologica, della cura del territorio, della ricerca di spiritualità. Sono l’archetipo di un paesaggio persino oltre confine: sono definite “dolomitiche” anche le Montagne Rocciose o la Cordigliera Cantabrica.
Il loro valore estetico è ribadito anche nell’arte: la natura che fa da sfondo alla Gioconda assomiglia molto al Catenaccio della Val di Fassa e, se è poco probabile che Leonardo abbia soggiornato in Trentino, è pur vero che quello dolomitico assurge a idealtipo ambientale.
Nel 2009 le Dolomiti hanno avuto dall’Unesco il riconoscimento di Patrimonio dell’Umanità per una serie di unicità: la spettacolarità delle cime, l’importanza scientifica, le sensazioni che trasmettono, la loro estensione su cinque province. Non sono una barriera che segna il confine, al contrario sono la connessione tra territori: si tratta di 9 sistemi montuosi interconnessi, che solo dialogando acquistano senso.
Il geologo Marco Avanzini ha analizzato nel suo intervento le trasformazioni del paesaggio dolomitico da teatro di guerra tra il 1912 e il 1918, un luogo dove nascondersi, da far esplodere o da minare, a teatro naturale, culla di tradizioni, straordinario laboratorio a cielo aperto, da studiare in modo multidisciplinare. La montagna conserva le ferite del conflitto a cent’anni di distanza, ma riesce a sprigionare vita. È stata “addomesticata” per l’adattamento in quota e molti giovani oggi fanno ritorno in montagna: alcuni si dedicano all’allevamento delle capre in Val di Non, altri gestiscono malghe, rifugi, agriturismi.
E in montagna, come suggerisce Suor Monica delle Agostiniane di Lecceto, in provincia di Siena, anche il silenzio diventa una via di comunicazione: ci si immerge nella natura per restaurare un equilibrio di forze. È tempo, allora, di ripensare il paesaggio, anche a partire dagli errori che ha commesso la mano dell’uomo: ad esempio, in Trentino le linee ferroviarie storiche dismesse sono state riqualificate e sono stati adattati dei percorsi ciclabili.
Cosa dire delle vie d’acqua, che dall’alpeggio conducono al mare? Il paradosso è che l’Italia è una penisola che “insiste” sull’acqua, ma manca una cultura del trasporto fluviale, perché la conformazione del suolo e la lunghezza dei fiumi non consentono il trasporto merci come avviene, ad esempio, in Germania. Ma è soprattutto una scelta strategica quella di privilegiare le strade e il trasporto su gomma. E oggi, viene da dire, se ne pagano le conseguenze.
Allo stesso modo, occorre evitare, come sostiene Leonardo Becchetti, docente di Economia politica presso l’Università di Roma Tor Vergata, una certa idolatria, per cui la natura diventa più importante delle persone: se la prima vittima della scarsa sensibilità ambientale è la Terra, la seconda sono i poveri e le fasce più vulnerabili. E allora non occorre solo ripensare il paesaggio, ma anche i nostri comportamenti. In molti, oggi, sono disposti a pagare un sovrapprezzo per prodotti  che attestino la responsabilità sociale e ambientale. Il social investment negli Stati Uniti ha raggiunto un volume pari al PIL del Canada e del Brasile messi insieme. Oxfam ha ideato la campagna “Scopri il marchio” per informare i consumatori sulla valutazione data alle aziende in base alla loro responsabilità sui temi: terra, donne, agricoltori, acqua e clima.
«Non si può essere schizofrenici – lamenta Becchetti -. L’aumento del PIL negli USA non è coinciso con un aumento della felicità. Si può essere felici con meno e puntare sulla qualità delle relazioni».
Il 25 maggio scorso con NeXt ha organizzato il primo cash mob etico, dallo slogan “Nessuna azienda è così grande da poter ignorare i suoi clienti”. Un gruppo organizzato di consumatori si è incontrato davanti a un punto vendita a Roma per acquistare insieme un paniere di prodotti del commercio equo e solidale. Non un gesto isolato, dunque, ma una massa critica per fare concorrenza ad altri prodotti dello stesso punto vendita e premiare le aziende virtuose. Il ruolo attivo dei cittadini e delle imprese, secondo Becchetti, è la vera rivoluzione copernicana.
È d’accordo Andrea Masullo, presidente del comitato scientifico di Greenaccord: «l’economia umana e l’economia della natura non possono non parlarsi perché sono reciprocamente indispensabili».

 

Il ruolo delle reti

(Fonte: Caffè dei Giornalisti)

Nel corso del Forum, uno spazio di rilievo è stato dedicato a esplorare il ruolo delle reti come strumento di tutela del territorio e come elemento di progresso materiale e immateriale dell’umanità.
«La qualità e l’efficienza delle reti – spiega Andrea Masullo, presidente del comitato scientifico di Greenaccord – sono il segnale della qualità e della capacità evolutiva di un sistema: reti ecologiche, reti di trasporto, reti di informazione e di telecomunicazione, percorsi di pellegrinaggio, reti commerciali, reti spirituali. Non possono essere le regole delle reti finanziarie a dominare sulle reti sociali, sui sistemi ecologici, strumentalizzando la politica. Le reti finanziarie si occupano di trasferimenti di valori virtuali, ma non si occupano delle conseguenze sull’ecologia e sulla società. Ma il vero valore alla base del benessere è la disponibilità di risorse e servizi ecologici, alimenti sani, aria e acqua pulite, un clima stabile e la qualità delle reti di relazioni sociali».
Un concetto, quello di rete, che è stato indagato nei suoi molteplici aspetti dai relatori intervenuti: dall’importanza delle ferrovie storiche o delle vie d’acqua, alla risonanza delle via della fede e della spiritualità, ai valichi montani come punti di incontro tra popoli, alla costruzione culturale partecipata del paesaggio, alle vie di comunicazione vecchie e nuove.
Su quest’ultimo punto si è soffermato Ivan Montis, dirigente San Paolo digital, giornalista e docente di Scrittura crossmediale all’Università Cattolica di Milano. È partito da una domanda apparentemente banale: “cos’è internet?” per dare una risposta meno scontata: «certo, è una “rete di reti”, ma è soprattutto una rete di relazioni». Montis, infatti, invita a non chiamare social network gli ormai irrinunciabili Facebook, Twitter, Youtube, 4Square, per dirne alcuni. Sono social media, che uniscono persone e tecnologie. Un social network è qualcosa di più: è una classe con un docente, è una famiglia allargata, è la squadra di calcetto. È un gruppo in cui si condivide qualcosa, in cui si stabiliscono delle relazioni, in cui si partecipa. A questo proposito, ha voluto illustrare una differenza significativa con il grado di coinvolgimento nei social media: appena l’1-2% degli utenti genera contenuti di grande valore e partecipa attivamente; l’8-10% genera contenuti di minor valore e partecipa poco spesso; il 90% ne fruisce passivamente. Il famoso “like” ideato da Facebook è un modo semplice per invitare gli utenti a essere più coinvolti.
Cos’è, allora, che determina la capacità di diffusione in rete di un contenuto? Può aiutare avere tra i nostri contatti dei “connettori”. Montis li distingue in “collanti sociali”, che grazie alla loro empatia creano aggregazione; “information brokers”, che hanno una conoscenza approfondita di un determinato argomento tanto da diventare un punto di riferimento;  ed “evangelisti”, ossia persone con una missione.
Per i professionisti della comunicazione la sfida oggi è quella di coniugare new media e mezzi di comunicazione tradizionali. Montis cita il modello dell’open journalism e suggerisce: «non possiamo fermarci a un fatto. Dobbiamo avere tutta la notizia, tutto il quadro. Il Guardian, con la campagna “The Whole Picture” va proprio in questa direzione».
In una logica di continuità, ai giornalisti che hanno partecipato al Forum di Trento le parole di Alfonso Cauteruccio, presidente di Greenaccord, suonano come un invito: «siete viandanti, gente alla ricerca non solo di notizie ma anche di persone. Speriamo di avervi fornito spunti per scrivere, per parlare, per fare rumore, per mettere qualche tassello in più in un disegno che intende dimostrare come l’utopia può diventare concretezza».

 

24 luglio 2013

Elisabetta Gatto

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