Filosofia dell’inutile. Per una rinascita culturale

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di Tiziana Carena

 

Dal latino utilis, aggettivo verbale del verbo uti, “usare”, unito al prefisso negativo e privativo in- l’aggettivo sostantivato “inutile” indica gli svantaggi impliciti nel superfluo o nell’infruttuoso, secondo il Dizionario della lingua italiana  di G. Devoto e G. C. Oli. Una riflessione sull’ “inutile” che si appoggi ai molteplici metodi della filosofia è un’indagine sugli svantaggi che nella vita pratica il superfluo o ciò che non dà risultati concreti può portare con sé. Ma la dimensione dell’utilità non è, di fatto la dimensione esclusiva della vita umana. Aristotele ha affermato che dove finisce la dimensione dell’utile inizia la dimensione della contemplazione della verità attraverso la riflessione filosofica. Che è inutile soltanto perché si situa al di sopra dell’utile e nasce quando i problemi della sopravvivenza e del vivere bene sono già risolti. Ma nell’età moderna, la riduzione della vita umana al dare e avere ha finito per spingere a considerare come dannoso tutto quello che non è utile: la cultura della tecnica e la cultura dell’economia come dimensioni uniche dell’umano hanno portato a conclusioni esiziali per tutto quello che “non dà risultati concreti”.

Ma chi parlerebbe, oggi, di una filosofia dell’inutile? Noi, figli della società del consumo, consumatori tout-court…..

Il 10 maggio, nelle grandi sale del Lingotto, nel corso dello svolgimento della XXVII edizione del Salone del Libro, il filosofo Giulio Giorello, Nuccio Ordine, italianista,  Edoardo Boncinelli, genetista, si sono confrontati sull’ “utilità dell’inutile”, un accorato appello al valore intrinseco e formativo delle discipline umanistiche che servono come via per “uscire dalla crisi”. L’aridità contemporanea e il tramonto della formatività umanistica ha contribuito allo sviluppo della crisi. L’homo faber formato esclusivamente nell’essere faber, cioè tecnico, perde la dimensione della finalità del suo operare: la tecnica, l’economia, sono mezzi. Per che cosa? Non è un tema recente: in termini drammatici lo aveva già sottoposto all’attenzione Max Horkheimer, nel 1947, nel volume Eclissi della ragione, a un paio d’anni dalla fine della più grande e distruttiva guerra che il mondo abbia generato fino a ora, quella del 1939-1945.

Che cosa significa riscoprire l’inutilità? Non significa rivalutare qualche cosa di svantaggioso. Al contrario significa riscoprire la formazione umana, senza amputazioni dovute ai dettati di una razionalità puramente calcolistica, la formazione umana del carattere attraverso l’esperienza storica del bello, del sublime, le due fonti del nostro interesse più profondo per la realtà che ci circonda, come aveva già intuito Kant (nelle Osservazioni sul sentimento del bello e del sublime del 1764).

In quest’incontro sono stati letti passi dei classici per risvegliare l’interesse per l’ozio filosofico e il ridimensionamento del valore umano delle attività tecnico-pratiche. Del resto la stessa scienza moderna, con Copernico, Galilei, Newton, è nata non dalla ricerca dell’utile tecnico, ma dal desiderio, tutto filosofico, della contemplazione disinteressata del vero, come ha sostenuto Giorello.

L’utilità dell’inutile, il bene come cultura, il vero come ricerca, non passano sempre attraverso giochi ponderabili matematicamente e valutabili dal punto di vista della loro utilità. Del resto anche l’attuale corsa agli ultimi ritrovati della tecnologia delle telecomunicazioni risponde non tanto a criteri utilitaristici, quanto a criteri estetici, oppure di prestigio sociale, “inutili”. Inutili: ma quanto formativi? Distinguiamo, dunque, fra una inutilità formativa e una inutilità non-formativa. L’inutilità della filosofia è una inutilità formativa: la rivoluzione scientifica nasce dalla filosofia, le scienze sociali e la psicologia storicamente nascono dalla filosofia; l’inutilità delle arti è una inutilità formativa di cui si continua nonostante tutto a sentire il bisogno (anche nelle nuove forme di arte al computer).

Ancora una volta, un appello a uscire dall’ossessione del possesso, sorella dell’ossessione tecnologica, una sorta di cleptomania dell’astratto; come diceva il filosofo Georg Simmel, il denaro fa innamorare dell’astratta possibilità di possedere molte cose, senza possederle mai concretamente; e così l’astratto imperativo della tecnica, “quello che può essere fatto deve essere fatto” evidenziato a suo tempo da G. Anders. Il “pane del pensiero”, espressione usata nell’incontro, è realmente concreto: perché soddisfa quella parte che caratterizza l’uomo rispetto all’animale, cioè la sua razionalità disinteressata. Il fatto stesso che il nostro cervello sia più complesso di quello degli antropoidi, comporta che noi abbiamo bisogni differenti e irriducibili alla sfera della pura utilità (che regna sul mondo animale).

Leggiamo, quindi, per un pensiero libero, per un appello alla cultura contro l’omologazione il libro che si sta traducendo in molte lingua, L’utilità dell’inutile, Milano, Bompiani, 2014, di Nuccio Ordine e Noi che abbiamo l’animo libero. Quando Amleto incontra Cleopatra, Milano, Longanesi, 2014 di Edoardo Boncinelli e Giulio Giorello, dove si trattano i grandi dilemmi della religione, della politica e della scienza.

T.C.

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