I biocarburanti, nuovo colonialismo dei ricchi

jatropha curcus

L’elenco delle materie prime per ottenere carburanti alternativi a quelli petroliferi si è arricchito di recente di una nuova voce, quella dell’olio dei semi di jatropha curcas. Questi, detti pinoli d’India e il loro olio sono descritti nel Dizionario di Merceologia e di Chimica applicata scritto dal prof. Vittorio Villavecchia (1859-1937) e pubblicato da Heopli in varie edizioni, la cui ultima risale al 1935. Le piante del genere jatropha appartengono alla famiglia delle euforbiacee e si presentano come alberelli che producono dei frutti del diametro di una diecina di centimetri, al cui interno si trovano da 2 a 4 semi ovoiodali appiattiti, lunghi da 15 a 20 millimetri. I semi hanno all’esterno una sottile corteccia che si stacca facilmente e all’interno contengono una mandorla biancastra oleaginosa con circa il 35 percento di un olio che si estrae per spremitura. Originaria dell’America centrale, la jatropha era stata coltivata nelle colonie africane della Francia per ricavarne un grasso adatto alla fabbricazione dei saponi, poi era stata dimenticata.

L’importante dibattito sui biodiesel
A partire dal 2000 è stata riscoperta nell’ambito della ricerca di prodotti vegetali da cui ricavare carburanti per autoveicoli, soprattutto esteri degli acidi grassi come alternativi ai carburanti per motori diesel, ribattezzati biodiesel. Nelle piante coltivate si ha una resa di circa 3-5 tonnellate di semi per ettaro, a cui corrisponde una produzione di circa 500-1.000 Kg di biodiedel per ettaro. L’olio di jatropha si inserisce così in un vasto dibattito che ha molti aspetti agronomici, economici, e socio-politici.
Prima di tutto la passione per il biodiesel dipende da due fattori importanti: il primo è l’andamento del prezzo del petrolio, molto oscillante,  negli ultimi mesi è andato da 80 a 110 dollari al barile, corrispondente a circa 500-600 euro alla tonnellata, il secondo fattore è l’affidabilità delle sovvenzioni che i governi assicurano alle fonti rinnovabili, i combustibili di origine vegetale costano più di quelli petroliferi, a parità di potere calorifico, e possono inserirsi nel mercato soltanto con contributi governativi giustificati dal fatto che il biodiesel permette di non consumare petrolio di importazione e che il suo uso immette nell’atmosfera, rispetto ai carburanti petroliferi, una minore quantità di anidride carbonica e di gas che modificano il clima.
Durante la combustione anche il biodiesel immette nell’atmosfera anidride carbonica ma, a livello globale, è più o meno la stessa quantità che è stata sottratta dall’atmosfera nel corso della coltivazione delle piante da cui derivano. L’olio di jatropha può essere bruciato direttamente in caldaie, il biodiesel prodotto finora è stato sperimentato con apparente successo negli autoveicoli e anche nei motori per aerei. Alcune compagnie aeree si fanno pubblicità vantandosi di utilizzare nei loro velivoli un carburante “verde” derivato dall’olio di jatropha.

Seri problemi
La jatropha, sia in Africa o Asia, ma anche eventualmente nell’Italia meridionale, può essere coltivata in zone con poche piogge, aiuta a rallentare l’erosione del suolo e crea occupazione nell’intera filiera agroindustriale. Infatti, la pianta produce, oltre ai semi oleosi, anche residui e sottoprodotti che possono essere utilizzati come additivi al terreno o come biomassa combustibile. L’olio di jatropha si mette in concorrenza con gli altri grassi finora usati per la produzione di biodisel, principalmente olio di palma di importazione, olio di colza e olio di soia. Fino a quando si è trattato di produrre pochi milioni di tonnellate all’anno di biodiesel le cose sono andate abbastanza tranquille, ma i consumi di carburante per motori diesel ammontano, nella sola Italia, a circa 25 milioni di tonnellate all’anno, nel mondo a un miliardo di tonnellate all’anno. Pensare di sostituire anche solo una parte di questa domanda con carburanti di origine vegetale crea subito altri problemi.

Danni ecologici e sociali: la natura non fa sconti
I progetti di coltivazione su larga scala della jatropha propongono, contro un vantaggio economico ed ecologico di cui godono i paesi europei, vari danni sia ecologici sia sociali nei paesi sottosviluppati. Purtroppo la natura non dà niente gratis. Se si volesse sostituire anche solo il 10 % dei carburanti diesel consumati in Italia con biodiesel da jatropha occorrerebbe mettere a coltura almeno due milioni di ettari. È vero che imprese cinesi, brasiliane, europee stanno calando in Africa a comprare milioni di ettari [è il fenomeno del landgrabbing, NdR] per coltivazioni energetiche, ma già si sta manifestando una protesta delle popolazioni locali che riconoscono in questa passione ecologica dei ricchi una nuova forma di colonialismo, con alterazioni degli equilibri del suolo e della circolazione delle acque, in cambio di miseri salari, col rischio di vedere compromesse le coltivazioni di piante alimentari.

Giorgio Nebbia

18 aprile 2012

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *