+40 e -50: bilanci e previsioni della crisi globale

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Cinquanta anni non sono molti, ma possono essere sufficienti: a cambiare rotta o a sprofondare nel baratro. Ugo Leone fa il punto, alla vigilia della conferenza ONU di Rio de Janeiro

“+5, +10,+20”: non è una progressione aritmetica, ma sono le scadenze a partire dal Summit della Terra, tenutosi a Rio de Janeiro dal 3 al 14 giugno 1992 venti anni dopo quello svoltosi a Stoccolma sull’Ambiente Umano.

Cinque anni dopo Rio, dal 23 al 27 giugno capi di Stato e di Governo si incontrarono  a New York per verificare l’andamento degli impegni assunti cinque anni prima e contenuti nel documento conclusivo, la Agenda 21,  che era un elenco di “buone intenzioni” da realizzare nel 21° secolo.

Dieci anni dopo il successivo monitoraggio dell’Agenda 21 fu fatto a Johannesburg, in Sud Africa.

Ora siamo a  venti anni dopo e capi di Stato e di Governo si riuniscono in un nuovo Summit, ancora a Rio de Janeiro.

Un bilancio sconfortante su emissioni, acqua e inquinamento

A che cosa sono serviti  40 anni di incontri? Un bilancio di questi  vertici affollati di capi di Stato e di governo di tutta la Terra è abbastanza sconfortante. Per rendersene conto basta confrontare le petizioni di principio alla base di ogni convocazione  di quei vertici con gli impegni contenuti nelle conclusioni e le successive realizzazioni.

Ne ricordo solo tre che mi sembrano particolarmente significativi:

1. Al summit di Rio 1992 si prese atto che sarebbe stato necessario intervenire per bloccare le cause alla base di evidenti mutamenti climatici di responsabilità umana. Si decise che bisognava invertire le tendenze e fu raggiunto un accordo per la firma di una “Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici” che cinque anni dopo portò alla stesura del Protocollo di Kyoto. Il trattato prevedeva l’obbligo per i Paesi industrializzati, di operare, nel periodo 2008-2012, una riduzione delle emissioni inquinanti, considerate responsabili dell’aumento delle temperature terrestri, in  misura non inferiore al 5% rispetto alle emissioni registrate nel 1990 considerato come anno base di riferimento. Siamo, appunto, nel 2012 e le emissioni sono aumentate, non certo ridotte.

2. Già a Rio, ma soprattutto a Johannesburg si sottoscrisse l’impegno a portare l’acqua entro un quindicennio ad un miliardo di persone che ne risultavano prive. Dieci anni dopo la popolazione terrestre è ulteriormente aumentata e tuttora almeno un miliardo non ha accesso sufficiente ad acqua potabile.

3. La lotta all’inquinamento, soprattutto atmosferico, base fondamentale per la costruzione di uno sviluppo basato sul principio della sostenibilità, ha segnato indubbi progressi nei Paesi del primo mondo ma è sotto gli occhi di tutti il modo, insostenibile per il pianeta oggi e ancor più per le generazioni future, con cui su tutta la Terra si realizza la crescita dell’economia. Con particolare riguardo ai Paesi in via di sviluppo i quali hanno abbandonato la condizione di sottosviluppati (Cina, India e Brasile innanzitutto) con un impatto sull’ambiente fortemente negativo.

Ce la faremo?

Se queste sono le premesse bisogna chiedersi se il pianeta Terra e l’umanità che lo vive ce la farà ad arrivare prima della temuta ecocatastrofe. E il pensiero non può non andare ad un altro anniversario che si ricorda in questo 2012.  Sono i 40 anni trascorsi dalla pubblicazione del   primo dei rapporti del MIT (Massassuchets Institute of Technolgy) al Club di Roma sui dilemmi dell’umanità (il famosissimo Limiti dello sviluppo secondo la traduzione in italiano) il quale metteva sull’avviso paventando il rischio che, continuando di quel passo, la Terra e l’umanità che la abiterà sarebbe collassata in cento anni.  Si cominciò anche a riflettere sulla incontestabile realtà di essere cresciuti secondo un modello consumatore e sperperatore di risorse naturali in gran parte non rinnovabili in tempi storici.

Allora? Se la soluzione a questi problemi va affidata ai partecipanti, anche se ai massimi livelli, alle Conferenze internazionali passate e future dubito molto che si ottengano risultati capaci di superare gli egoismi dei pochi privilegiati a vantaggio dei molti diseredati.

Se due gradi vi sembran pochi

Purtroppo questa pessimistica affermazione è suffragata dalla constatazione che la storia non ha insegnato nulla. E sono stati regolarmente trascurati i documentati avvertimenti dei tanti uomini di scienza e istituti di ricerca che periodicamente mettono sull’avviso dei pericoli presenti e, soprattutto, futuri.

Un altro di questi avvertimenti è fornito ancora dal Club di Roma che, in preparazione del Summit Rio +20, si è fatto promotore di un nuovo studio (Jorgen Randers, 2052: A Global Forecast for the Next Forty Years) proiettato nei prossimi 40 anni. Lo scenario delineato è preoccupante quanto realistico ed è incentrato soprattutto sui temuti mutamenti climatici accelerati dal crescente accumulo di gas serra che potrebbe provocare entro il 2052 un aumento di due gradi di temperatura media. Possono sembrare pochi due gradi. Ma sono tanti da sconvolgere gli instabili equilibri sui quali si reggono molti micro-ecosistemi, ma soprattutto tali da innescare quel temuto e irreversibile processo di riduzione dei ghiacciai polari e di innalzamento del livello degli oceani.

Un’idea malintesa di crescita

Alla base, come già avvertito quarant’anni fa, vi è il malinteso modo di produrre crescita illudendosi di poter attingere ad un serbatoio inesauribile di risorse e contrabbandando questa crescita come sviluppo. Che invece non c’è stato e non c’è, come dimostrano i dati sulla ancora enorme quantità di cittadini del pianeta che tuttora muoiono di malattie, di fame e di sete.

Come già nel 1972 il rapporto I limiti dello sviluppo, questo studio propone limiti alla crescita. Innanzitutto della popolazione. Ma questo mi sembra uno strumento di contenimento dei problemi ormai meno rilevante di altri.

Il problema è più il “come” del “quanto”

Soprattutto se si considera che ormai dovunque sulla Terra la popolazione sta rallentando i suoi ritmi di incremento e verosimilmente raggiungerà il picco entro una trentina d’anni per poi stabilizzarsi intorno ai 9 miliardi. Una quantità certamente di rilevante peso che ci consente di dire che siamo molti, ma non autorizza a dire che siamo troppi. Perché il problema non è tanto quanti siamo, ma come usiamo e gestiamo le risorse a disposizione nostra e delle generazioni future. Perciò il problema più rilevante, l’obiettivo da perseguire, come pure propone lo studio di Jorgen Randers, è essenzialmente la riduzione della “impronta ecologica”. Cioè della prepotenza con la quale i Paesi del “primo mondo” hanno consumato e consumano al di là delle loro disponibilità naturali sottraendone agli altri e contraendo un debito, un “deficit ecologico” il cui risultato potrebbe essere il diffuso, generalizzato impoverimento.

Fiducia, malgrado tutto

Malgrado ciò e sebbene esistano pochi elementi tali da giustificare ottimismo, ho fiducia che si arriverà in tempo.

Secondo le previsioni più attente sarebbero cinquanta gli anni ancora a disposizione dell’umanità per evitare la temuta “Sesta estinzione di massa” della storia della Terra. Nella lunga storia della vita sul Pianeta si sono già verificate, e superate, cinque gravi crisi. La quinta fu quella che portò alla scomparsa dei dinosauri 65 milioni di anni fa. Quelle crisi comunque non furono mai definitive e totali e furono sempre seguite da periodi di ripresa favoriti dalla scomparsa della causa che le aveva prodotte. Ma oggi se è l’uomo protagonista delle cause che potrebbero portare alla sua stessa estinzione, le possibilità di ripresa sarebbero legate alla scomparsa della specie umana.

È da questa assurda realtà che bisogna uscire. Cinquanta anni non sono molti, ma possono essere sufficienti.

Ugo Leone

21 maggio 2012

 

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