XXXII Edizione del Torino Film Festival

Dal 21 al 29 novembre Torino ospita la XXXII edizione del Torino Film Festival: 197 titoli, selezionati tra circa 4000 visionati, di cui 45 anteprime mondiali e 70 italiane.

Alla direzione del festival Emanuela Martini (Paolo Virzì si è ritagliato il ruolo di guest director), pronta a mettere in campo le qualità di chi l’ha preceduta: “Il rigore di Nanni Moretti. La passione di Gianni Amelio. Lo spirito pop di Paolo Virzì“.

La sezione principale, TORINO 32, riservata ad autori alla prima, seconda o terza opera, prevede 15 film in concorso, inediti in Italia. Il concorso si rivolge principalmente alla ricerca e alla scoperta di talenti innovativi, che esprimano le migliori tendenze del cinema indipendente internazionale.

FESTA MOBILE presenta fuori concorso film raccolti in giro per il mondo e ancora inediti in Italia, a cominciare da Gemma Bovery di Anne Fontaine per chiudere con Wild di Jean-Marc Valée.

E ancora DIRITTI&ROVESCI con 5 film italiani che affrontano temi sociali; AFTERHOURS con una predilezione per i generi horror, thriller, noir, surreale; TFFdoc con i migliori documentari italiani e internazionali; Italiana.Corti, dedicata ai cortometraggi; Onde con nuove soluzioni narrative; Spazio Torino, aperto ai cortometraggi di cineasti piemontesi o residenti in Piemonte e infine Torino Film Lab, con i prodotti della comunità creativa di giovani film maker di tutto il mondo.

Alcune interessanti recensioni:

 

 

Approaching the elephant

 

di Amanda Rose Wilder

 

Documentario interamente girato in bianco e nero durante il primo anno di attività della Teddy McArdle Free School, una scuola libertaria del New Jersey, ispirata ai principi dell’educazione democratica. Nel mondo ce ne sono altre 261. Il primo esperimento risale al 1901 a Barcellona.

 

La Teddy McArdle Free School suggerisce un modello educativo che rimette in discussione le basi: non esistono regole se non quelle relative alla sicurezza. Non ci sono materie obbligatorie, nè voti, nè compiti in classe. Tutto è concertato e condiviso nel corso di riunioni dove gli adulti e i bambini sono posti sullo stesso piano e hanno uguale diritto di voto.

 

La regista ha filmato i 15 studenti lasciati liberi di scegliere cosa volevano fare e quando: imparare a usare attrezzi di falegnameria, suonare uno strumento, risvegliare il corpo con esercizi di ginnastica, nulla è imposto, ma è deciso su base volontaria.

 

Un’occasione questa per esplorare il tema della giustizia, del potere, della democrazia, della libertà. E per domandarsi: cosa scelgono di fare i bambini quando non vengono loro imposte delle regole, ma possono seguire il loro cuore? E, dunque, qual è davvero la funzione educativa della scuola?

 

Colpisce la sicurezza sviluppata da alcuni di questi bambini, come Lucy, che riesce a dire esattamente quello che pensa, senza inibizioni, paura o imbarazzo.

 

Così come l’impossibilità degli insegnanti di arginare la spavalderia e la prepotenza di Jiovanni, il tipico provocatore, potenzialmente un leader, ma che usa al peggio le sue risorse e finisce per farsi espellere.

 

Se l’esperimento di questa free school possa funzionare come modello non è certo (ad oggi, di fatto, è chiusa), ma è importante darsi del tempo. Come dice il fondatore, Alex Khost, “I risultati si vedranno fra vent’anni”.

 

Il documentario non vuole dare indicazioni, solo accendere una scintilla di curiosità per un modo diverso, radicale e rivoluzionario di intendere la scuola.

 

 

 

Inupiluk

 

di Sébastien Betbeder

 

Reportage etnografico e fiction si mescolano in questo progetto che dà una testimonianza inconsueta della visita a Parigi di due cacciatori inuit, originari di Kullorsuaq, un piccolo villaggio della Groenlandia. Olee e Adam sono due amici dell’esploratore francese Nicolas Dubreuil e suoi ospiti durante il primo viaggio fuori dalla loro comunità. L’occasione fornisce il pretesto per il loro coinvolgimento in qualità di protagonisti di un film a fianco di due attori professionisti, che interpretano due ragazzi parigini incaricati di accoglierli e di portarli in giro per la città.

 

Immortalati i tentativi goffi di interazione, a cominciare dall’imbarazzo al momento dell’incontro all’aeroporto, sigillato da lunghi convenevoli. Difficile comunicare senza una lingua condivisa: Olee e Adam parlano solo la lingua inuktitut. Indispensabile allora fare ricorso al linguaggio non verbale dei gesti e alla riproposizione di slogan: i ragazzi francesi, entrambi di nome Thomas, per aprire un varco nella comunicazione replicano una serie di stereotipi (“Cosa conoscete della Francia? Edith Piaf? Mireille Mathieu?”) pensando che siano universali e che coincidano con l’immagine che gli altri hanno del loro mondo.

 

Espresso desiderio di Olee e Adam era quello di visitare uno zoo per vedere dal vivo animali che avevano visto solo in fotografia e una foresta, perchè non ne esistono in Groenlandia, e infine di fare un bagno nel mare. I due Thomas li esaudiscono e la convivenza tra i due mondi suggerisce occasioni uniche di dialogo e scambio, a tratti divertenti, a tratti poetiche.

 

Accompagnare i due nuovi amici a fare delle cose per la prima volta riporta i due Thomas all’infanzia, all’epoca della scoperta. E parallelamente anche per loro questi giorni sono un momento di scoperta e di sperimentazione di nuove forme di interazione. Hanno ad esempio l’idea di  registrare le conversazioni per poi farle tradurre in francese e conservare memoria dell’esperienza.

 

È buffo come, profondamente “urbani”, guardino al mondo “naturale” incarnato da Olee e Adam come al regno della saggezza, caricando le loro espressioni di una profondità di pensiero anche quando essi vogliono comunicare una banalità!

 

Esempio ben riuscito di un genere che avvicina il documentario alla commedia.

 

 

 

The kings surrender

 

di Philipp Leinemann

 

Noir metropolitano che mette a confronto il mondo delle bande giovanili dei sobborghi di una città tedesca con quello delle forze dell’ordine: lo scontro non è solo tra chi infrange la legge e chi è preposto a farla rispettare – e qui l’altra questione sollevata dal film: dove sta la giustizia? -, ma tra bande rivali, tra squadra mobile di polizia e forze speciali e all’interno di quest’ultime tra chi ammette ogni sorta di violenza per raggiungere la verità o meglio per compiere la propria vendetta e chi crede che un’altra soluzione sia possibile.

 

Il film è un crescendo di brutalità, le scene sono spietatamente crude, ci si immerge nel clima delle periferie per sentirne la solitudine delle vite ai margini. Lo stratega inconsapevole di una serie di eventi cruenti, un ragazzino tredicenne, è egli stesso vittima del degrado in cui è costretto a vivere e il motore che lo spinge ad agire è il desiderio di colmare il vuoto dell’abbandono con l’amicizia “estorta” al capo di una delle bande rivali.

 

Le scelte del giovane Nazim, a cui si intreccia il caso, innescano un concatenarsi di risse, omicidi, aggressioni nella caccia al colpevole che è sempre più sfuggente. Così come lo è la verità. Non ci sono eroi, solo uomini. E una donna, Nadine, una poliziotta, uno dei personggi più controversi.

 

Sia le gang di teppisti, sia i corpi speciali non lesinano nell’abuso della forza, nell’esaltazione dell’azione, nel delirio di onnipotenza con il pretesto di difendere l’onore ferito e vendicare i propri compagni. E quando Kevin, uno della squadra delle forze speciali, domanda al capo della polizia quale sia allora la differenza tra “noi” e “loro” la risposta con cui si chiude il cerchio è: “Noi possiamo”.

 

 

 

Ogni maledetto Natale

 

di Giacomo Ciarrapico, Mattia Torre e Luca Vendruscolo

 

Anti-commedia di Natale – o meglio commedia sul Natale – che per suscitare il riso non attinge al repertorio sessuale o gastrointestinale, piuttosto all’ironia studiata che spiazza perchè mette in campo e ridicolizza le manie di ciascuno di noi.

 

È la storia più vecchia del mondo: due giovani innamorati ostacolati dalle differenze di classe, upper-class e ricchissimo lui, di famiglia popolare e grossolana – per usare un eufemismo – lei.

 

Ciò che diverte è l’enfasi sugli stereotipi e i cliché dei due diversi ambienti che mette in luce le rispettive ipocrisie.

 

Gli interpreti sono gli stessi, cambiati d’abito, per entrambi i contesti familiari.

 

Così la cena della vigilia è ambientata in un cascinale a Cucuja, un luogo di fantasia sperduto nella campagna viterberse, dove il malcapitato Massimo (Alessandro Cattelan) è introdotto ai rituali della famiglia: dalla caccia al cinghiale a un gioco di carte senza alcuna logica per gli outsider, all’uso spropositato dei fucili, alla sbornia con grappa casalinga. I parenti di Giulia (Alessandra Mastronardi) sono rozzi, stentano a fare una conversazione in italiano, il loro universo di riferimento si esaurisce nel perimetro del paesello – o meglio sono quella terra –, hanno un rispetto cieco delle tradizioni familiari. Dopo una serata in cui, per una serie di equivoci e il gioco delle parti, capita di tutto, si cambia atmosfera con il pranzo di Natale a casa della famiglia di Massimo in un palazzo affrescato nel centro di Roma. Immancabili i domestici filippini, la beneficienza per i bisognosi, una figlia mitomane, una madre nevrotica ossessionata dall’etichetta.

 

Divertentissimi, in particolare, Corrado Guzzanti nei panni del maggiordomo filippino e Valerio Mastandrea in quelli del fratello zotico di Giulia e del fratello di Massimo con deriva da fondamentalista cattolico.  

 

Splendida Laura Morante sia nei panni della madre di Giulia, austera e “provata dalla vita”, sia in quelli della madre di Massimo, donna tanto borghese quanto svampita.

 

Protagonista assoluto è il Natale, in origine festa delle tenebre, prima della sua trasformazione in festa della luce con l’avvento del Cristianesimo. E proprio le sue radici come tempo cupo e “maledetto” sarebbero la ragione degli ostacoli che si frappongono ai due innamorati per coronare la loro storia d’amore.  

 

Con ironia e a tratti cinismo – non dimentichiamo che gli autori sono gli stessi di “Boris” – il film rivela che dietro il motto “a Natale siamo tutti più buoni” si nascondono le fragilità, i compromessi e le verità imbarazzanti che ciascuna famiglia procura bene di celare.

 

 

 

Mange tes morts

 

di Jean-Charles Hue

 

Non sono le atmosfere gitane e balcaniche alla Kusturica a caratterizzare questo road movie, piuttosto uno spaccato crudo e amaro delle relazioni in un campo rom.

 

Tra cristianesimo pop e valori profondamente romanì, la kumpánia che si è insediata in una non precisata località francese si tiene in equilibrio tra tradizione e accettazione delle regole della società. Fino a quando non fa ritorno dal carcere, dove ha scontato 15 anni di detenzione per l’omicidio di un poliziotto, Fred, il maggiore di tre figli, oggi poco più che trentenne.

 

In barba alla funzione rieducativa del carcere, è pronto a riprendere il passato di delinquenza perché convinto che in fondo non si possa cambiare mai. Trova una giustificazione alla criminalità come arma contro la povertà: è stato costretto a diventare un ladro dalla necessità di procurare da vivere alla sua famiglia, quando è rimasto orfano, con due fratelli più piccoli e una madre malata.

 

Non sono passate ventiquattro ore e le porte del carcere potrebbero riaprirsi per lui dopo il tentativo di furto di rame – che è andato male, ma ha comunque lasciato sul tragitto una vittima.

 

Per il fratello minore Jason, dal soprannome altisonante di Jack (da Jack lo Squartatore) si profila un avvenire diverso, grazie all’intervento del cugino.

 

Sparatorie, inseguimenti della polizia, scorribande a tutto gas, furti di carburante, litigate e riappacificazioni ci portano al cuore della saga della famiglia Dorkel. La notte è il tempo del sovvertimento delle regole, della spericolatezza, della ribellione alle regole del mondo gagè, a cui non sentono e non vogliono appartenere.

 

L’indomani si apre con un battesimo, che più che segnare la conversione di Jason, è la possibilità di lavar via tutte le macchie del passato della sua famiglia. È un nuovo giorno, si può ricominciare tutto daccapo.

 

Perfettamente a suo agio il cast, formato da giovani rom che non sono attori professionisti, ma hanno un’incredibile presenza scenica.

 

 Elisabetta Gatto

 

 

 

 

 

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