Transocean di nuovo a centro del disastro

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Mentre in Brasile si delinea l’entità del disastro petrolifero, causato dalle fuoriuscite di un pozzo a circa 425 chilometri a nord est di Rio de Janeiro, Greenpeace rende nota la proprietà della piattaforma di estrazione.

 

È della Transocean, la stessa impresa che affittava, per mezzo milione di dollari al giorno, a BP la Deepwater Horizon esplosa nel Golfo del Messico il 20 aprile 2010.
Mal grado i tentativi dell’Agenzia Nazionale del Petrolio del Brasile (ANP) di minimizzare il disastro, dichiarando uno sversamento di 330 barili di petrolio al giorno, John Amos – direttore del sito SkyTruth specializzato nell’interpretazione di immagini satellitari – dichiara che potrebbe essere di 3.700 barili al giorno, praticamente dieci volte superiore. Secondo i satelliti la macchia ha ormai un’estensione di 2.400 chilometri quadrati, pari al doppio della grandezza del comune di Roma.
«È il primo disastro petrolifero del Brasile e il secondo, dopo più di un anno, di cui Transocean si rende responsabile» sottolinea Alessandro Giannì, direttore delle campagne di Greenpeace Italia. «La ricerca dell’ultima goccia di petrolio ci sta portando a disastri ambientali inaccettabili».
Chevron e Petrobras, proprietarie rispettivamente del 51.7%  e del 30% delle estrazioni del pozzo in questione – il restante 18.3% è della Japan Petroleum consortium Frade – , sostengono che il petrolio fuoriesca da una “frattura naturale” del suolo. Ammesso che sia vero – ma allora non si capisce perché sia stato autorizzato da ANP un progetto per la chiusura d’emergenza dei pozzi – c’è da chiedersi con quale cura sia stata realizzata la Valutazione d’Impatto Ambientale presentata e approvata per queste trivellazioni.
Il problema della valutazione degli impatti delle esplorazioni petrolifere non è solo brasiliano. Greenpeace e molti comitati di cittadini sono preoccupati anche per quel che succede nei nostri mari. Sono di questi giorni le notizie di esplorazioni petrolifere sul versante tunisino del Canale di Sicilia, con esplosioni che i sub dell’Associazione Apnea Pantelleria riferiscono di percepire sott’acqua a circa quaranta chilometri di distanza. L’impatto sulle popolazioni dei cetacei del Canale di Sicilia – che in inverno ospita una numerosa popolazione intorno a Lampedusa – è potenzialmente disastroso.
«Per difendere il Mediterraneo dalle trivellazioni, bloccare i progetti ad uno ad uno non basta – aggiunge Giannì – Quello che davvero dobbiamo fare è ridurre, per poi eliminare, la dipendenza dal petrolio. Con efficienza e rinnovabili possiamo salvare gli oceani e il clima del Pianeta».

 

21 novembre 2011

Chiara Capone

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