Federica Verga Marfisi
Sospesi.
Una lettura antropologica dell’eutanasia
Fondazione Ariodante Faretti, 2011
pp. 320, euro 20
Nella cultura contadina italiana, prima del boom economico degli anni Sessanta, la morte era qualcosa di presente, di visibile, di conosciuto anche per noi. Oggi la morte, quella vera, non quella dei videogiochi o dei film, è confinata nei telegiornali e negli ospedali.
Nessuno sa più bene come comportarsi. Mentre i nostri nonni sapevano, noi brancoliamo nel buio, con pochi rituali, nessuna parola, senza un senso condiviso che ci aiuti a stringerci intorno a una comunità proprio mentre la morte arriva a sgretolarla, a cavarne un pezzo.Nella nostra cultura abbiamo assistito ad una progressiva tecnicizzazione della morte. Ad una sua esclusione dal campo visivo, dagli spazi di discussione. Recentemente tuttavia si nota da più parti il ritorno, lento ma apparentemente costante, del tema sotto i riflettori, attraverso studi, dibattiti, proposte di legge. È naturale che ciclicamente una cultura tenti di porre rimedio ad una falla creatasi nel suo ordito. E nel far questo, l’antropologia ci può essere preziosa. Perché viviamo in un mondo complesso, interconnesso, il mondo globalizzato che è reso tale dal passaggio incessante non solo di merci e informazioni ma anche e soprattutto di esseri umani. Perché afferma l’importanza del principio della diversità: non esiste un modo unico di vivere le emozioni legate alla perdita delle persone care. E infine perché ci parla del cambiamento e ci invita ad essere flessibili nelle nostre interpretazioni.
Questo esercizio di flessibilizzazione risulta fondamentale nel momento in cui si deve ricostruire una certa densità culturale intorno al concetto di morte. E in questo esercizio, nello specifico ambito dell’eutanasia, ci accompagna l’autrice di questo saggio. Un cammino poco battuto, ma decisamente utile da percorrere.