Ricordando Seveso

Quarant’anni fa il tremendo incidente all’Icmesa, in Lombardia, guadagnava il triste primato di ottavo tra i peggiori disastri ambientali della storia. Ma i giornali cominciarono a darne notizia solo dopo una settimana. Ma le Geenna dell’inquinamento e delle discariche non sono finite
 
Ugo Leone 

 

Quaranta anni fa, il 10 luglio 1976, un tremendo incidente immise nell’aria di Meda – comune al confine con quello di Seveso in Brianza – un’enorme quantità di diossina a causa del surriscaldamento e della conseguente avaria di un reattore nell’industria Icmesa della multinazionale Givaudan produttrice di tricolorofenolo, componente di molti diserbanti.

La diossina (TCDD) è una sostanza chimica fra le più tossiche tanto che l’incidente di Seveso è stato classificato all’ottavo posto tra i peggiori disastri ambientali della storia. La nube tossica colpì ì comuni di Meda, Seveso, Cesano Maderno e Desio, ma il comune maggiormente fu Seveso che diede il nome a quel disastro e alla direttiva 82/501 della CEE con la quale per la prima volta fu varato un regolamento europeo per la protezione e prevenzione degli effetti dei grandi rischi industriali. 

 

Ricadute gravissime. E un merito paradossale

 Le ricadute sull’ambiente e sulla salute della popolazione coinvolta furono gravissime: la vegetazione fu completamente distrutta dalla caduta al suolo del diserbante; migliaia di animali furono abbattuti mentre sono ancora in fase di studio gli effetti sulla salute umana: dalle dermatosi alle malformazioni dei nascituri.

Ancora oggi la visione dei filmati dell’epoca costituisce un documento raccapricciante, girati, come sono, tra abitazioni evacuate, carcasse di animali, in un ambiente spettrale nel quale si aggirano uomini in tuta bianca e gialla.

Il disastro aveva avuto origine nella tarda mattinata (alle 12,37 per la precisione) del10 luglio, ma i giornali cominciarono a darne notizia solo dopo una settimana e prevalentemente i quotidiani milanesi (Bimbi rossi e gonfi per una nube di gas, “Il Giorno”, 17 luglio; Un intero quartiere di Seveso gravemente inquinato da gas tossici, “Corriere della Sera”, 17 luglio).

L’ammissione, da parte dell’azienda, del rilascio di diossina nell’ambiente, arrivò solo il 19 luglio quando le pericolose diossine di tipo TCDD furono trovate nelle analisi effettuate dal laboratorio chimico provinciale di Milano. L’ordine di evacuare le zone più inquinate, la distruzione dei raccolti e l’abbattimento degli animali da cortile, arrivò solo il 24 luglio.

E da allora ci si rese conto della gravità della situazione. Il territorio (anticipando in qualche modo quanto realizzato dalla Protezione Civile nella individuazione delle aree a rischio di eruzione del Vesuvio) fu suddiviso in tre zone a decrescente livello di contaminazione. Nella zona A maggiormente colpita furono demolite le abitazioni e sfollati 676 abitanti. Circa 240 persone vennero colpite da cloracne, una dermatosi provocata dall’esposizione al cloro e ai suoi derivati, che crea lesioni e cisti sebacee. Il terreno contaminato fu depositato in vasche e sostituito da un nuovo terreno proveniente da zone non inquinate che fu rimboschito dando origine all’attuale “Parco naturale Bosco delle Querce”.

Quel grave disastro così sinteticamente ricordato, ebbe, paradossalmente un merito se così lo vogliamo definire: quello di far conoscere la pericolosità della diossina. Come altre volte è accaduto nel nostro strano Paese, bisogna essere “riconoscenti” ai disastri quando e perché consentono di evitare o limitare i danni di altri eventi: è il caso della “scoperta” della pericolosità dell’amianto, del terremoto in Basilicata e Irpinia il 23 novembre 1980, del disastro di Seveso… 

Oggi? Dove? Perché?

 Oggi, anche per questi “meriti”, sono più limitati i rischi di incidenti del genere. Un po’ perché sono aumentati i livelli di attenzione anche grazie all’applicazione di tecnologie avanzate; un po’ perché non poche delle industrie a rischio sono state “dismesse” e le loro produzioni delocalizzate in Paesi economicamente meno sviluppati e, in quanto tali, più permissivi.

Significativo è il caso della Campania e, soprattutto, di Napoli. Di una città, cioè, nella quale ormai di industria si parla prevalentemente in termini di dismissione, ma la quale, prima in Italia, fu dichiarata “area ad elevato rischio di crisi ambientale” e che contava undici delle tredici industrie a grave rischio individuate nella regione. Tutto con rilevanti problemi per la salute della popolazione soprattutto a causa dell’inquinamento atmosferico.

Oggi, dunque, chiuse quelle industrie l’aria è tornata respirabile e la salute è salva? Non è così. Perché l’aria l’inquinano non solo le industrie e le automobili, ma, talora ancor più e peggio, i rifiuti la cui combustione illegale (al di fuori degli inceneritori) può avere ricadute anche peggiori sulla salute. In modo particolare per quanto riguarda alcune componenti dei “rifiuti speciali” non smaltite secondo legge, ma nel modo criminoso che caratterizza la storia soprattutto di alcune aree delle province di Napoli e Caserta.

 

La Geenna? Era una discarica

Il recentissimo rapporto dell’ISPRA (Istituto per la Protezione dell’Ambiente) sui rifiuti speciali dà una puntuale descrizione dell’andamento di produzione e smaltimento di questi rifiuti prodotti da industrie e aziende e che si dividono in “non pericolosi” e “pericolosi”. I primi appartengono prevalentemente al settore manifatturiero, delle costruzioni e demolizioni e di alcune tipologie di trattamento dei rifiuti. I “pericolosi” sono generati dalle attività produttive che contengono al loro interno sostanze pericolose in concentrazioni tali da costituire pericolo (ad esempio, raffinazione del petrolio, processi chimici, industria fotografica, industria metallurgica, produzione conciaria e tessile, impianti di trattamento dei rifiuti, ricerca medica e veterinaria).

Quanti e quali di questi finiscono nelle discariche in Campania? Dal 2014 nemmeno un chilo perché nella regione non esistono discariche autorizzate allo smaltimento di rifiuti speciali che vengono, quindi, trattati fuori regione o all’estero.

Non nelle discariche, dunque, ma sotterrati da anni, provenienti da “fuori regione” e nottetempo bruciati per smaltirli più rapidamente. Sono i fuochi che alimentano quella che viene definita, appunto, la “terra dei fuochi”. In realtà è la Geenna di cui si trovano non pochi riferimenti nei testi biblici che si riferiscono ad una valle poco fuori Gerusalemme che gli abitanti utilizzavano come discarica mantenendovi costantemente acceso un fuoco per distruggere i rifiuti. Magari non erano “speciali”, ma la rivoluzione industriale non era ancora scoppiata e industriali disonesti non avevano motivo di rivolgersi a mafiosi e camorristi per disfarsi dei loro rifiuti.

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