Quanto manca?

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(di Ugo Leone)

Il problema per la Terra si porrà tra poco meno di due miliardi di anni quando il nostro pianeta uscirà dalla cosiddetta zona abitabile, orbitando attorno al Sole a una distanza che non permetterà più la presenza di acqua allo stato liquido, e quindi di vita, sulla superficie. Ce lo dice Andrew Rushby, uno degli astrobiologi dell’Università dell’East Anglia che hanno calcolato quanto manca al nostro pianeta per diventare inospitale. Ciò significa che chi vive oggi può stare tranquillo.

 Ma è proprio così? In realtà si pone per gli abitanti della Terra nel loro complesso un problema analogo a quello che si pone per la popolazione dei Paesi ricchi dove la speranza di vita alla nascita si va continuamente ampliando. L’Italia, per esempio, la cui popolazione ha una durata media di vita tra le più lunghe. Ma è vera vita? No, se e quando non è accompagnata da una buona qualità di vita.

La notizia è che non c’è notizia

È il caso della Terra a causa, soprattutto, dell’irrisolto problema dei mutamenti climatici. Da qualche mese sembrava che le cose stessero mutando perché se la temperatura media della Terra continua ad essere sempre più calda, tuttavia negli ultimi 15 anni è aumentata di 0,04°C per decennio, mentre tra il 1970 e il 1998 era cresciuta di 0,17°C. Di conseguenza si andava anche diffondendo l’opinione che l’incremento di un grado non è la fine del mondo. Anzi presenta vantaggi importanti per l’agricoltura, per i traffici commerciali. Anche le responsabilità delle azioni umane venivano riabilitate e l’ironia dei “negazionisti” dei quali in Italia “il foglio” è il capofila, trovava nuovo alimento: La catastrofe può attendere. Dopo anni passati a spiegarci che il clima cambia e la temperatura aumenta per colpa nostra, ora gli allarmisti cambiano idea: “mistero”, la Terra non si riscalda più (“Il foglio” 20 aprile 2013); Restano dieci anni per salvare il pianeta”. Come ventiquattro anni fa (“Il foglio”26 settembre 2013).

Fino alla doccia fredda (quella sì) del nuovo rapporto dell’Ipcc (Intergovernmental Panel on ClimateChange – Comitato intergovernativo di esperti sul cambiamento climatico), presentato a Stoccolma  il 27 settembre, il quinto, che segue quello del 2007. E i titoli dei quotidiani –almeno di quelli che informano con maggiore attenzione su questo tema- sono profondamente mutati: C’è la prova definitiva: è l’uomo che cambia il clima (Luca Mercalli  “la stampa” 26 settembre); Clima, l’allarme degli scienziati Onu: dati confermati, bisogna intervenire subito e 2100, città sommerse e caldo record “il clima impazzito sconvolgerà la Terra”(Antonio Cianciullo “la repubblica” 28 settembre);  Clima, colpa (quasi) certamente nostra (Stefano Agnoli “Corriere della sera” 28 settembre) La nostra Terra sempre più calda (Elena Nieddu “il secolo XIX” 28 settembre); L’ONU: <> (Alessandra Baldini “il mattino” 28 settembre);  La terra muore non ci sono alibi (Pietro Greco “l’unità) 29 settembre).

In tutti questi articoli, come nel rapporto dell’Ippc, la preoccupazione maggiore consiste nell’aumento delle temperature medie. Ma è anche vero, come spiegavail 2 agosto 2013 Pilita Clark (What climate scientists talk about now) sul “Financial Times”, che se la temperatura media della Terra continua ad essere sempre più calda, tuttavia negli ultimi 15 anni è aumentata di 0,04°C per decennio, mentre tra il 1970 e il 1998 era cresciuta di 0,17°C. E’ doveroso dare questa informazione, ma, come dicevo all’inizio ciò non rappresenta un mutamento di tendenza, bensì un suo rallentamento. E La sostanza non cambia, la temperatura continua a crescere, anche se ad un tasso minore. E, come avverte un documentato articolo sul “Guardian,” molto opportunamente e utilmente tradotto in italiano su climalteranti.it (Le cinque fasi del negazionismo climatico), l’aumento più lento della temperatura è la base della citata campagna per screditare i risultati dell’Ipcc. Ma, la discussione su questa che viene definita “pausa” dell’andamento climatico, come molto chiaramente si può leggere nel sito di “Scienza in rete” del 23 settembre,“non è cosa nuova né sorprendente. Ci ricorda una volta di più che le questioni climatiche sono complesse e che si prestano ad interpretazioni semplicistiche e talvolta strumentali. Motivo per cui la chiarezza della comunità scientifica e l’onestà dei mezzi di informazione sono oggi quanto mai necessarie”.


Insomma, come scrive Pietro Greco, “La notizia è che non c’è notizia” perché il rapporto dell’Ipcc propone solo conferme e, tutto sommato, sono solo la notizia “perché tolgono ogni residuo alibi ai governi dei duecento Paesi del pianeta Terra”.

Dove sono i rischi maggiori?

Ce lo ricorda “Le Scienze” (Una mappa delle regioni più vulnerabili al cambiamento del clima 23 settembre) riportando i contenuti di una ricerca pubblicata dalla rivista “Nature Climate Change” che contiene una mappa “eco-regionale” dell’esposizione al clima  elaborata da James E. M. Watson, Takuya Iwamura e Nathalie Butt, dell’Università del Queensland a Santa Lucia, in Australia.

È importante questa conoscenza perché la Terra, i suoi ecosistemi, si possono salvare tanto più e meglio se la difesa dagli effetti dei mutamenti climatici si basa su una precisa conoscenza delle aree più vulnerabili. E queste si trovano in Asia meridionale e sudorientale, in Sudamerica costa orientale, nell’Europa centro-occidentale, nell’ Australia meridionale. Un’ estesa e importante superficie, anche dal punto di vista demografico, che secondo gli autori della ricerca, induce a riflettere sulle misure di conservazione ambientale dei prossimi anni, “adottando nelle aree già degradate e con una previsione di stabilità più sfavorevole un approccio che preveda la sinergia di diversi interventi, tra cui la traslocazione delle specie minacciate e opere di ingegneria del territorio”.

Da che cosa, qui e nel resto del pianeta, sono provocati questi rischi? Le conferme alle quali fa riferimento Pietro Greco sono dieci: la temperatura media continua ad aumentare da quasi duecento anni ed entro la fine del secolo potrebbe aumentare da due a quattro gradi; aumentano gli eventi estremi (alluvioni, tempeste, uragani); i ghiacciai riducono la loro superficie e continueranno a ridursi; si innalza il livello dei mari e potrebbe aumentare sino a 80 centimetri; questi cambiamenti una volta innescati sono irreversibili e possono durare secoli; siamo pressoché certi (almeno al 95%) che almeno la metà di tutto ciò è dovuta ad attività umane. Aumenteranno i profughi ambientali (ne ho scritto su questa rivista –profughi ambientali-  il 15 maggio 2012) che potrebbero arrivare ad oltre 200 milioni.

Non tutto è perduto…ancora

Tuttavia, va anche osservato, magari con una punta di realistico ottimismo, che non tutto il disastro è stato innescato e quindi non tutto è irreparabilmente compromesso. Una parte dei cambiamenti può essere prevenuta. Ma occorre non perdere tempo. Ce n’è poco a disposizione degli Stati. I quali devono innanzitutto ridurre drasticamente le emissioni di gas serra. A tutto vantaggio, comunque, di un nuovo modo di produrre e di farlo con processi industriali meno energivori e utilizzatori di energia proveniente da fonti pulite e, comunque diverse da quelle fossili.

Occorre che tutto ciò si realizzi in non più di dieci anni. E per farlo non bastano le rituali Conferenze internazionali sul clima come l’ultima fallita a Copenaghen nel 2009. Occorre che siano i grandi Stati –Stati Uniti e Cina in testa- che modifichino drasticamente le tendenze in atto delle quali sono tra imaggiori responsabili. Le intenzioni sembrano buone. Gli USA, grazie al maggiore impegno del presidente Obama, si sono impegnati a ridurre, entro il 2020, le emissioni di anidride carbonica del 17% rispetto a quelle registrate nel 2005; una via analoga è intrapresa dalla Cina.

Ma, come si sa e si usa dire, anche la strada dell’inferno è lastricata di buone intenzioni.

Ugo Leone

 

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