Prometeo è caduto a Cernobyl

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Il nucleare è tornato prepotentemente a far parlare di sè. L’11 marzo il Giappone ha subito un forte terremoto che ha compromesso il funzionamento della centrale nucleare di Fukushima, che da giorni continua a liberare sostanze radiottave.

Di seguito si riporta un articolo scritto da Gianni Mattioli e Massimo Scalia e pubblicato su Il Manifesto nel 1986, dopo la tragedia di Cernobyl, sottolineando quanto, nonostante siano passati 25 anni, le problematiche legate alla tecnologia nucleare siano ancora attuali.

Cernobyl segna la fine del mito di Prometeo. Prometeo rubava il fuoco agli dei per donarlo agli uomini, nella notte dei tempi, per rischiarare la loro meschina esistenza. Se vogliamo mantenere il senso transitivo, nella inesauribile applicazione del mito alla storia delle scoperte, fino agli ultimi secoli del nascere e dello svilupparsi delle società industriali, Prometeo deve, in qualche modo, assumere nei tempi moderni, i panni dell’uomo di scienza. E così egli adesso ruba alla natura, alla materia, il segreto intimo della sua coesione – il fuoco nucleare – e lo dona agli uomini.Almeno così ci assicura il professor Zichichi.
Certo qualcosa di profondo e di terribile si era rotto, nel mito ridotto a retorica, a metafora rozza e falsa equazione “progresso tecnologico-scientifico uguale progresso sociale”.
Prometeo aveva rubato il fuoco nucleare per consegnarlo non agli uomini ma agli stati maggiori degli eserciti. È vero che si trattava di tempi tremendi, e che lo straordinario “squadrone” di intelligenze europee coordinato da Oppenheimer consegnò la prima atomica ai militari americani nella ossessiva convinzione che la follia hitleriana avrebbe potuto precederli.
Come fare a condannarli?
Ma è anche vero che Heisenberg rimasto nella Germania nazista e senz’altro in grado di organizzare l’atomica tedesca, proprio questo senso dette alla sua permanenza: impedire e sviare ogni attenzione del progetto della bomba atomica.
E con coraggio e intelligenza ci riuscì.
Di fronte quindi all’insorgere della variabile impazzita – il nazismo – Prometeo si scinde in due: un Io ruba il fuoco pur nell’atroce certezza di non riuscire a consegnarlo agli uomini, ma ai Titani; l’altro Io, quello diviso, rinuncia addirittura a rubarlo perché è consapevole che non ci sono uomini cui consegnarlo.
Ma il fuoco nucleare è ormai diventato la realtà dell’autodistruzione possibile della specie.
Frastornato, sconvolto Prometeo rilancia la sua sfida: il fuoco della distruzione diventi il fuoco degli uomini. Ma la vendetta degli dei è tremenda: non serve più l’aquila dal becco di bronzo a divorargli le viscere. Prometeo diventa il fantoccio dei Titani: il complesso militare-industriale e la sua inesauribile logica marchiano a fondo il tentativo di promuovere il fuoco nucleare dalla disumana immagine di Hiroshima e Nagasaki alla crescita e al benessere degli “atomi per la pace”: l’energia elettronucleare.
Oggi Prometeo sente confuso il vociare di moltitudini che lo hanno seguito – quanti hanno la tuta blu – credendo di poter stabilire sulla terra il paradiso della crescita illimitata del sapere e del potere dell’uomo.
Oggi Prometeo rispunta e ricorda che “atomo” nella sua lingua vuole dire “inscindibile”. Non c’è  un fuoco nucleare per la pace degli uomini.
Oggi Prometeo vede la sua immagine decomporsi, ma sotto la maschera che cade si rivela arcaico e decomposto anche l’antico comando divino del dominio dell’uomo sulla natura.
Ma Cernobyl ha reso comprensibile per tutti l’amarezza dei “pensieri degli anni difficili” di Einstein: «Il nostro mondo si trova di fronte a una crisi di cui ancora non si rendono ben conto coloro che hanno il potere di prendere decisioni. La potenza incontrollata dell’atomo ha cambiato ogni cosa tranne il nostro modo di pensare, e così noi siamo trascinati verso una catastrofe senza paragone».
Ma oggi siamo in tanti a capire, oggi osiamo pensare e osiamo sperare: la catastrofe può essere arginata, noi possiamo cambiare noi stessi in accordo con il mondo in cui vogliamo vivere.

Di Gianni Mattioli e Massimo Scalia (Il Manifesto, maggio 1986)

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