Non bastava. Il terremoto della Fragitalia

Incendi, frane e terremoti. L’Italia paese fragile.
L’ignoranza da parte delle classi dirigenti del Paese che governano è una caratteristica che si tramanda dal Risorgimento in poi e aggrava le cose
 
Ugo Leone
 
 
Non bastavano gli incendi sopratutto presenti e devastanti nelle arre naturali protette; non bastava il crollo di 700mila metri cubi di roccia dalla Piccola croda rossa; ci voleva anche il tremendo terremoto che ha raso al suolo interi comuni del Centro Italia con epicentro nella provincia di Rieti.
È stata l’ennesima dimostrazione della fragilità del nostro Paese (volendo cfr. Ugo Leone, Fragile Italia in “L’Italia e le sue Regioni”, Treccani 2015) che si deve certamente alla naturale predisposizione della geologicamente giovane Italia, ma non meno alla umana ignoranza.
Di conseguenza quando si manifesta un evento disastroso come quello che ha devastato aree del Centro Italia i primi, a volte immediati, interventi provano a salvare quante più possibile vite umane, a sistemare al meglio i sopravvissuti in strutture di emergenza, tanto che si fa ricorso anche a professionalità quali lo storico dell’emergenza e lo psicologo dell’emergenza.
Il tutto sempre a disastro avvenuto. Disastro che si sarebbe potuto prevedere, se non nei tempi, almeno nei luoghi e nelle modalità di manifestazione se l’ignoranza del Paese che governano non fosse una caratteristica che gli uomini di governo si tramandano dal Risorgimento in poi.
Lo ha detto Italo Calvino e l’ignoranza alla quale si riferisce è quella geografica tanto da indurlo ad auspicare lo studio obbligatorio della Geografia per mInistri e sottosegretari.
Se questa ignoranza fosse colmata e là dove viene colmata esisterebbero ed esistono di fatto, le condizioni per realizzare al meglio la prevenzione dei danni provocati dal disastro. 

Resta comunque un problema che può richiedere tempi anche lunghi di soluzione: è la possibilità di far riprendere alle persone colpite il loro “stato” precedente il disastro. Accade, cioè, che poiché taluni eventi, per quanto prevedibili e prevenibili negli effetti calamitosi, possono manifestarsi con caratteristiche di eccezionale violenza, quando ciò avviene la popolazione ne subisce gravemente le conseguenze. Si presenta in questi casi un problema di ripresa anche psicologica delle persone colpite. È quella che si chiama resilienza un principio al quale si fa ricorso per i materiali e per la loro capacità di resistere a urti improvvisi senza spezzarsi e ritornare allo stato originario dopo aver subito uno shock. Naturalmente non tutti i materiali hanno questa possibilità e non tutti allo stesso modo. Ma se il “materiale” è quello umano e, quindi, dal campo della fisica si passa a quello delle scienze sociali, la domanda è: che cosa succede alle persone dopo uno shock traumatizzante causato da un disastro naturale o da un attentato terroristico con il loro carico di morti e danni materiali?

Le reazioni sono diverse; la ricostituzione dello stato originario – appunto, la resilienza – avviene in modi e tempi differenti e consiste nella capacità umana di affrontare le avversità della vita, superarle e uscirne trasformati o addirittura rafforzati.
Il concetto è nato negli Stati Uniti e se ne è cominciato a riparlare con particolare attenzione dopo la sciagura delle Torri gemelle. Ma il problema è sempre vivo e incombente perché si propone all’indomani di ogni disastro: specialmente dopo i disastri naturali, in particolare terremoti, eruzioni vulcaniche, uragani. L’eccezionale numero di vittime in eventi come l’attentato alle Torri gemelle, i terremoti in Belice, Friuli, Irpinia, L’Aquila, l’uragano Katrina, gli tsunami nelle Filippine e in Giappone, per quanto elevatissimo, sottostima la realtà perché non tiene conto delle ‘vittime superstiti’, dei sopravvissuti agli eventi disastrosi. Non tiene conto, cioè, di quanti per anni potranno avere negli occhi e nella mente l’aereo che trapassa le torri; la scossa che scuote le abitazioni e quanto c’è dentro; il vento che solleva auto e case; il mare che travolge tutto quanto trova lungo la sua strada.
Insomma si tratta di tutelare i parenti delle vittime e i superstiti delle sciagure verificatesi nel Paese proponendosi di non far perdere la memoria delle vittime, ed essere un punto di riferimento per i sopravvissuti e uno stimolo per le istituzioni. È un obiettivo importante, ma se il recupero della memoria è fondamentale per evitare che si ripetano certe sciagure, per i sopravvissuti vi sono anche altre problematiche legate al modo in cui si supera quell’esperienza. È, appunto, quella che si chiama ‘capacità di resilienza’, che consente di reagire di fronte alle situazioni di sofferenza. D’altra parte non va trascurato che la fine di una situazione dolorosa non coincide con la fine delle sofferenze e delle preoccupazioni, ma talora segna proprio il momento del loro inizio. Di più, ciascuno può imparare dalle persone che sono state colpite e che, con il loro esempio, possono indicare se e come è possibile risanare le ferite subite. L’approccio e l’approfondimento del discorso sulla resilienza è di ordine squisitamente socio-psicologico e riguarda il comportamento degli esseri umani come risposta a una sofferenza scatenata da un evento doloroso. Ma non è solo l’essere umano a trovarsi di fronte a questo problema in seguito a un evento traumatizzante: lo sono anche l’economia, la società nel suo complesso o una più piccola comunità, lo è la politica internazionale o locale. Possono esserlo anche, e lo sono specialmente a valle di un evento calamitoso, l’ambiente e il territorio.
 
I costi economici e sociali sono elevatissimi: si potrebbero “risparmiare” se la conoscenza degli eventi e del loro inevitabile verificarsi nel tempo e nello spazio fosse indirizzata a quella fondamentale opera di prevenzione dei rischi che è lo strumento più efficace per garantire il più possibile la convivenza con la fragilità del Paese.

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