La chimica di morte

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(di Giorgio Nebbia)

Ben opportunamente il premio Nobel per la pace del 2013 è stato assegnato all’agenzia internazionale che si occupa della eliminazione delle armi chimiche. Fra tutte le armi, strumenti di morte, merci oscene, le peggiori di tutte sono proprio quelle chimiche, sostanze, spesso ottenibili a basso prezzo e con strutture industriali abbastanza rudimentali, che sono state e sono causa di forme orribili di morte, di dolori indescrivibili. L’uso di agenti chimici per mettere fuori combattimento gli avversari è iniziato durante la prima guerra mondiale come sottoprodotto del successo dell’industria chimica. Nella seconda metà del 1800 erano già note numerose sostanze dotate di proprietà irritanti, asfissianti e velenose; nel 1812 si era scoperto che, dalla reazione del cloro con l’ossido di carbonio, si forma fosgene, un liquido volatile molto irritante e tossico.

 

L’industria chimica alla fine dell’Ottocento produceva già su larga scala il cloro, un gas soffocante. Ugualmente noto e prodotto industrialmente era il solfuro di dicloroetile, destinato ad una drammatica notorietà come Yprite, dal nome della città belga in cui è stato usato per la prima volta in guerra. Nonostante la voglia di guerra che ha attraversato l’Europa per tutto l’Ottocento, lo spettro della guerra chimica ha spaventato sempre le grandi potenze, al punto da indurle a riunirsi all’Aja, nel luglio 1899, e a firmare un accordo che le impegnava “a non usare proiettili il cui unico scopo è quello di spandere gas asfissianti o deleteri”. L’accordo vietava in particolare l’impiego di “veleni o armi avvelenate” e di “armi, proiettili o sostanze capaci di provocare dolori superflui”.

Nonostante questo solenne impegno, le navi giapponesi lanciarono contro le navi russe delle granate contenenti gas asfissianti durante la battaglia di Tsushima, nel 1905; il fatto spinse le grandi potenze a riunirsi di nuovo e a firmare, il 18 ottobre 1907, una seconda convenzione dell’Aja nella quale si mettevano nuovamente al bando le armi chimiche (per inciso la convenzione vietava anche l’impiego dell’aeroplano in guerra); la convenzione però non fu firmata da cinque delle potenze che si sarebbero affrontate pochi anni dopo sui campi d’Europa; anzi la prima guerra mondiale fu, fin dall’inizio, il vero banco di prova della guerra chimica. Nell’ottobre del 1914 i francesi avevano fatto un limitato impiego di gas lacrimogeni, adducendo che non si trattata di sostanze “soffocanti o tossiche” e che quindi il loro uso non violava il trattato dell’Aja. Come ritorsione il 22 aprile 1915 nella regione di Ypres, in Belgio, i francesi, sottoposti da alcune ore ad un violento bombardamento, videro avanzare una nube di gas giallo-verdastro, il terribile cloro, che precedette l’avanzata dei fanti tedeschi. Due giorni dopo, sempre nella stessa zona, il cloro fu lanciato dai tedeschi contro le truppe canadesi: questo primo saggio di guerra chimica costò la vita a diecimila soldati.

Da allora si ebbe un uso sempre più frequente e intenso di armi chimiche; l’industria chimica offrì agli eserciti sostanze sempre più tossiche capaci di provocare lacrimazioni, di togliere il respiro, di uccidere quasi istantaneamente. Nello stesso tempo furono cercati e inventati dei sistemi di protezione, a cominciare dalle “maschere antigas”, vere e proprie maschere nelle quali l’aria esterna contaminata passava attraverso appositi filtri prima di arrivare ai polmoni. Vivere, muoversi e combattere con le maschere antigas era una sofferenza grandissima; si faceva fatica a respirare ed era difficile disporre di filtri capaci di filtrare tutti i diversi agenti chimici di guerra, tanto più che sono diecine e che non si sa quale sarebbe stato usato dal nemico.

Se ne accorsero i combattenti della prima guerra mondiale che dovettero affrontare, da entrambe le parti, attacchi, oltre che con cloro, con bromuro e cloruro di cianogeno, con acido cianidrico (usato dai francesi nel 1916), con fosgene —- che provoca dapprima tosse, poi cianosi e infine, nel corso di poche ore, asfissia — e infine con yprite, usata per la prima volta dai  tedeschi nel 1917 a Ypres dove già avevano usato il cloro.

Il solfuro di dicloroetile, o gas mostarda — l’yprite appunto — ebbe effetti devastanti perché provoca irritazione e cecità e, ad alta concentrazione, anche la morte. Molti combattenti sul fronte francese, anche se sono sopravvissuti, hanno portato per tutta la vita i segni della terribile sostanza. Sempre durante la prima guerra mondiale fu impiegato come agente asfissiante la lewisite, un prodotto arsenicale irritante. Complessivamente il peso dei gas di guerra impiegati durante la prima guerra mondiale ammontò a 13 milioni di kilogrammi.

Chi rilegge a distanza le cronache di tale guerra, su tutti i fronti, ha una chiara idea dell’impressione lasciata dagli attacchi con armi chimiche; tutti i paesi avrebbero dovuto, a rigore, unirsi per mettere al bando tali armi, per distruggere gli arsenali esistenti. Effettivamente un tentativo di nuovo accordo si ebbe con la conferenza di Ginevra del 1925; il 17 giugno fu firmato un accordo (in vigore dal 1929) che, pur con certe ambiguità, proibiva l’uso in guerra di “gas asfissianti, tossici e simili e di tutti i liquidi, materiali e dispositivi analoghi”, stabilendo che il divieto era esteso anche a tutti i tipi di guerra batteriologica. Gli Stati Uniti non firmarono l’accordo del 1925.

La Società delle Nazioni indisse qualche anno dopo una nuova conferenza. Il 15 gennaio 1931 vari paesi (Regno Unito, Romania, Jugoslavia, Cecoslovacchia, Giappone, Spagna, Unione Sovietica, Cina, Italia, Canada e Turchia) dichiararono che, secondo loro, l’accordo del 1925 doveva comprendere il divieto dell’uso in guerra di gas lacrimogeni e di altri prodotti chimici irritanti. Nonostante le dichiarazioni della diplomazia, nel dicembre 1935 il generale Graziani ordinò l’uso dell’yprite contro le truppe etiopiche durante la conquista dell’Africa orientale e i giapponesi usarono gas asfissianti nella campagna contro la Cina fra il 1937 e il 1943.

Del resto nei venti anni fra le due guerre, più o meno segretamente, sono state sviluppate e potenziate molte nuove sostanze adatte per la guerra chimica; nei corsi universitari italiani di chimica c’era addirittura un insegnamento di “Chimica di guerra”.

Nel 1940 certamente tutti i paesi avevano delle grandi riserve di potenti armi chimiche. Fortunatamente, e in maniera abbastanza sorprendente, però, durante la seconda guerra mondiale nessuna delle potenze in lotta volle farvi ricorso. Anzi nel giugno 1943 il presidente americano Roosevelt condannò l’uso delle armi “inumane” e dichiarò che gli Stati Uniti — che pure non avevano firmato la convenzione di Ginevra del 1925 — non le avrebbero mai usate per primi. Ne avevano però a disposizione, tanto è vero che una nave carica di fusti di yprite fu bombardata da aerei tedeschi nel porto di Bari, esplose, si incendiò e il suo carico finì nel porto e poi nell’Adriatico.

Anche se non in guerra, negli anni cinquanta e sessanta agenti di guerra chimica sono stati impiegati dalle truppe britanniche per sedare le rivolte a Cipro, nella Guiana ex-britannica e altrove; armi chimiche sono state impiegate nella guerra civile dello Yemen e, più recentemente, nella guerra Iran-Iraq negli anni ottanta del Novecento.

A rigore sono agenti di guerra chimica anche gli erbicidi, ben noti e di diffuso impiego in agricoltura, lanciati su larga scala dagli Stati Uniti nel Vietnam per distruggere vaste zone di foresta tropicale nella quale si rifugiavano i partigiani Vietcong. Alla fine degli anni sessanta la notizia sollevò un grande scandalo tanto più che gli erbicidi usati in guerra erano materiali greggi e poco costosi ed erano contaminati da diossina (un sottoprodotto della loro fabbricazione); questa diossina ha provocato morti e malattie sia fra la popolazione civile sia fra i combattenti, per cui una associazione di reduci ancora oggi fa causa al governo americano per le ferite riportate a causa dei defolianti usati nel Vietnam.

Il 5 dicembre 1966 l’assemblea generale delle Nazioni Unite ha adottato una nuova risoluzione nella quale sono state condannate le azioni contrarie allo spirito dell’accordo di Ginevra del 1925.

L’attenzione per le armi chimiche scoppiò di nuovo nell’aprile 1968, quando si scoprì che in una valle dello Utah, uno stato degli Stati Uniti, vasto e poco abitato, improvvisamente oltre seimila pecore erano morte in modo misterioso. Le forze armate americane dovettero ammettere, dopo molte reticenze, che l’incidente era dipeso dal fatto che agenti paralizzanti di guerra erano fuoriusciti accidentalmente, a 50 kilometri di distanza, dal campo sperimentale di Dungway, dove venivano studiate. Improvvisamente l’opinione pubblica mondiale si rese conto di quali progressi la guerra chimica avesse fatto e nuove terribili sigle sono entrate nel vocabolario della morte.

La sostanza chimica che aveva ucciso le pecore dello Utah divenne noto come agente VX, un composto appartenente alla classe degli esteri fosforici, sviluppati principalmente e apertamente come insetticidi, ma le cui proprietà militari sono subito apparse evidenti: gli esteri fosforici agiscono sul sistema nervoso inibendo, in grado maggiore o minore, l’azione dell’enzima colinesterasi che presiede alla trasmissione degli impulsi nervosi. In generale gli esteri fosforici possono anche non essere letali, ma provocano disturbi alla respirazione, oppressione, cefalea, sudore, nausea, vomito, effetti paralizzanti. Alla stessa classe apartiene il “tabun” (GA), inventato dai tedeschi intorno al 1937, il “sarin” (GB), inventato anch’esso dai tedeschi nel 1938, il “soman” (GD), inventato dai tedeschi intorno al 1940, è un liquido con leggero odore di frutta.

Altri agenti irritanti sono il CN, o omega-cloroacetofenone, una polvere bianca studiata come agente di guerra fin dagli anni trenta del Novecento, l’agente DM, o adamsite, un derivato arsenicale, il CS (nome usato in Inghilterra; il nome francese è CB), orto-cloro-benzalmalonitrile, “inventata” nel laboratorio segreto militare inglese di Porton come agente lacrimogeno da usare per domare le rivolte.

L’elenco delle sostanze di guerra chimica è molto più lungo. Un utile articolo anche in italiano si trova (con molta bibliografia) nella sempre utile enciclopedia Wikipedia: http://it.wikipedia.org/wiki/Armi_chimiche.

Il pericolo delle armi chimiche feriva dal fatto che, a differenza delle armi atomiche, esse possono essere fabbricate con mezzi tecnici relativamente rudimentali, addirittura a fianco di altre sostanze per usi civili, come gli antiparassitari agricoli, usando le stesse materie prime e gli stessi impianti. E’ quindi corretto denunciare tali armi come “le atomiche dei poveri”.

Un secondo aspetto riguarda la difficoltà della loro eliminazione, una volta che sono state fabbricate. Nel 1993, dopo lunghe discussioni, è stato firmato un accordo (entrato in vigore nel 1997) che vieta la costruzione e l’uso delle armi chimiche e impone la loro distruzione, una operazione non facile.

La prima idea è stata quella di buttarle nel mare; dopo la seconda guerra mondiale gli inglesi hanno disperso almeno centomila tonnellate di armi chimiche in disuso al largo delle coste dell’Irlanda; addirittura non si conosce neanche più il posto esatto dell’affondamento dei relativi fusti. Anche una parte delle armi chimiche tedesche, dopo la guerra, è finita nel mare: decine di migliaia di fusti dell’agente “tabun” sono stati gettati in fondo al Mar Baltico. Il fatto che finora non sembra si siano verificati avvelenamenti su larga scala del mare o degli organismi marini — o che non se ne sia venuti a conoscenza — non esclude la follia di questo modo di procedere.

Ma anche altri sistemi — interramento, incenerimento, idrolisi — sono insoddisfacenti, come dimostrano i numerosi tentativi fatti in questi anni. Una documentata descrizione tecnica dei mezzi per distruggere le armi chimiche si trova in
Internet nel “sito” della convenzione per la loro eliminazione:  ttp://www.opcw.org/html/db/chemdemil_destruct_tech.html.

Ci sarebbe lavoro per molti chimici.

Giorgio Nebbia
nebbia@quipo.it

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