Environmental performance index Report 2016

Progressi e aree critiche verso gli obiettivi di sviluppo sostenibile.

L’Italia sotto la media europea. Ma i paesi più “virtuosi” sono i maggiori responsabili del degrado ambientale globale

Chiara Genova

 

È stato pubblicato l’Environmental Performance Index Report 2016. Questo indice valuta come 180 paesi proteggono gli ecosistemi e la salute umana. Il rapporto 2016 ci mostra continui progressi, come nell’accesso all’acqua potabile e alle strutture igienico-sanitarie, ma anche aree decisamente critiche: come l’inquinamento dell’aria e lo stato delle risorse ittiche.

EPI: cos’è e come è calcolato

Il rapporto biennale, arrivato alla sua decima edizione, è un progetto è sviluppato dall’Università di Yale e la Columbia University, in collaborazione con Samuel Family Foundation, McCall MacBain Foundation e il World Economic Forum.

L’indice, che misura la protezione della salute umana dai pericoli ambientali e la protezione dell’ecosistema e la gestione delle risorse, è costruito attraverso il calcolo e l’aggregazione di più di 20 indicatori che riflettono i dati ambientali a livello nazionale. Questi indicatori sono riconducibili a 9 categorie tematiche, ognuna delle quali propone il raggiungimento di un obiettivo. Le sfere considerate sono: l’agricoltura, la qualità dell’aria, la biodiversità e gli habitat, il clima e l’energia, le foreste, la pesca, gli impatti sulla salute, l’acqua, e acqua e igiene. Le fonti sono pubbliche e includono: statistiche ufficiali fornite dai governi alle organizzazioni internazionali; dati satellitari e spaziali e osservazioni da stazioni di monitoraggio.

I metodi, i dati e i risultati sono disponibili sul sito www.epi.yale.edu

Il rapporto del 2016

Le migliori performance evidenziate dal rapporto del 2016 sono del nord Europa: Finlandia, Islanda, Svezia, Danimarca e Slovenia. La Somalia invece risulta il paese con la performance peggiore, preceduta da Eritrea, Madagascar, Niger e Afghanistan. Esaminando il trend nell’ultima decade emerge come praticamente tutti i paesi abbiano registrato dei miglioramenti. Soprattutto i paesi dell’Africa Sub Sahariana, grazie a investimenti nell’accesso all’acqua potabile, nell’accesso ai servizi igienici e nelle infrastrutture energetiche.

Si registrano progressi in alcuni ambiti ma alcune aree di intervento rimangono critiche. Aumentano le morti dovute alla qualità dell’aria e dell’acqua; più di 3,5 miliardi di persone vivono in nazione con una qualità dell’aria rischiosa; il 23% dei paesi non ha sistemi di trattamento delle acque reflue; le foreste registrano una continua diminuzione; estremamente problematiche sono le condizioni degli stock di pesce.

Lo sviluppo economico se da un lato permette di ottenere significativi miglioramenti in alcune settori e anche associato ad aumenti consistenti dei rischi per l’uomo e per l’ecosistema. L’aria e l’acqua ben mostrano questi segnali contrastanti. Lo sviluppo economico comporta solitamente investimenti in infrastrutture igienicosanitarie e accesso all’acqua potabile, ma la crescita della produzione industriale e il trasporto su gomma aumentano la produzione di altri inquinanti, soprattutto per la qualità dell’aria.

 

E l’Italia?

Quali sono i risultati del nostro paese nel proteggere la salute umana e degli ecosistemi? L’Italia è al ventinovesimo posto su 180, distante da altri paesi europei certo più famosi per l’attenzione all’ambiente. I settori dove la performance italiana è migliore sono quelli relativi all’acqua e ai servizi igienico-sanitari, in linea con la media dei risultati dei paesi simili per reddito (PIL) o della stessa area geografica. Una buona performance si registra anche sul trattamento delle acque reflue, nell’agricoltura, e le foreste, soprattutto in relazione alla media dei paesi europei.

Il settore più problematico è il settore stock marino, decisamente peggiore che la media paesi con stesso reddito e di quelli europei. Anche la qualità dell’aria raggiunge un punteggio non particolarmente brillante, risultando peggiore che la media dell’area geografica e di reddito, soprattutto nell’esposizione al diossido di azoto (NO2) e all’esposizione al PM2.5.

 

EPI e l’impatto ambientale

Come citato nel rapporto l’EPI non è una raffigurazione esaustiva dei temi ambientali a livello nazionale e globale. Sono, infatti, considerati solo dati per cui è possibile una comparazione a livello globale. Molti altri aspetti, inoltre, non vengono considerati dall’indice: la perdita di specie, perdita di zone umide, degradazione del terreno agricolo, i tassi di riciclo, l’adattamento, la vulnerabilità e resilienza al cambiamento climatico.

Ma fornisce importanti strumenti per le politiche ambientali; considerato parallelamente ai Sustainable Development Goals offre una linea di osservazione della perfomance dei paesi nel raggiungere questi obiettivi.

L’EPI misura la performance dei paesi nel preservare la salute umana e la salute degli ecosistemi, quindi questo non coincide necessariamente con gli impatti ambientali che questi paesi producono. Molti altri indicatori possono essere considerati per avere un quadro ancora più preciso degli impatti e delle problematiche ambientali di cui siamo responsabili. Tra questi si possono ricordare l’impronta ecologica e Planetary Boundaires. L’impronta ecologica misura la superficie in termini di terra e acqua necessaria per produrre, con la tecnologia disponibile, le risorse che consuma e per assorbire i rifiuti prodotti. All’impronta ecologica è collegato Overshot Day è il momento nel quale la domanda di risorse supera la capacità annuale della terra di generarle, quest’anno è stato il 13 agosto.

Se confrontiamo l’EPI con i dati dell’impronta ecologica, vediamo che i paesi apparentemente più “virtuosi” in campo ambientale in genere sono anche quelli maggiormente responsabili del danno ambientale globale e di quel cambiamento climatico che colpisce soprattutto i paesi più svantaggiati. Come mostrano le due cartine tratte dai rispettivi rapporti (l’Italia, ad esempio, ha un’impronta ecologica di 4,2 ettari globali pro capite, contro una disponibilità in termini di biocapacità terrestre di soli 1,7 ettari).

EPI 2016

 

Impronta ecologica

Clicca qui per leggere il rapporto

 

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