Clima africano a Marrakech

Pianeta sempre più caldo, politica distratta, paesi africani in ansia: il continente, insieme al Mediterraneo, è una delle aree più a rischio. Entro il 2020 60 milioni di profughi climatici dall’Africa subsahariana vero nord
 
Mario Salomone
 
(Marrakech) Sulle cime dell’Atlante c’è già la prima neve, ma i dati dall’Organizzazione Meteorologica Mondiale non lasciano dubbi: ogni anno che arriva è più caldo dei precedenti e il più caldo di sempre, mentre la Banca Mondiale certifica che i danni provocati da disastri naturali e sociali collegati al riscaldamento globale ammontano a 520 miliardi di dollari ogni anno.
Non è quindi solo la vicinanza geografica (e la politica estera marocchina di buon vicinato) a spingere alla COP 22 una folta schiera di capi di stato e di governo africani e della penisola arabica (il gruppo più numeroso tra la settantina di Stati rappresentati ai massimi livelli – e tra i quali i leader europei scarseggiano), oltre ai rappresentanti dei piccoli stati insulari (i più minacciati dall’innalzamento degli oceani), ad amministratori locali e a molte organizzazioni della società civile che presentano i loro progetti e le loro reti per la lotta al cambiamento climatico.
Se la desertificazione, infatti, minaccia almeno 110 paesi e un miliardo di persone, tra 350 e 600 milioni di africani dovranno fare i conti con la mancanza d’acqua. Insieme a loro, diminuiranno le rese, patiranno le coltivazioni e l’allevamento, spariranno mais, miglio e sorgo, e aumenteranno la povertà e le migrazioni, sia interne, sia tra stato e stato in Africa. 
 

Entro il 2020 si prevede che ben 60 milioni di persone si muoveranno dall’Africa subsahariana verso e Nord Africa e verso l’Europa (così come aumenteranno i migranti dal Messico verso gli Usa, piaccia o non piaccia a Donald Trump).

L’impressione, girando per i padiglioni della COP22 e scorrendo l’infinito programma di incontri e tavole rotonde, è che la maggior parte del mondo politico internazionale sia distratto, più occupato a scrutare sondaggi e a occuparsi di beghe di potere che non delle sorti dell’umanità in un pianeta bollente in senso proprio e metaforicamente. E che a prendere in mano queste sorti siano soprattutto i governi locali e regionali, insieme a un vasto fronte di organizzazioni della società civile, di imprese che credono nella transizione ecologica (in Marocco si sta perfino lavorando all’auto elettrica africana), di fondazioni, di enti finanziari pubblici e privati.
Dappertutto un appello forte e accorato a coniugare tecnologie per le energie rinnovabili o il risparmio e il recupero dell’acqua (mostrate in gran numero negli stand della zona verde) e sensibilizzazione, che vuol dire anche educazione e formazione.
Sono insomma i paesi “in via di sviluppo” i più determinati ed entusiasti nel promuovere innovazione, partecipazione e competenze. E la vecchia e stanca Europa? Saprà darsi la sveglia?

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