Aria nuova nell’ambiente scuola

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Un “maestro di strada” a viale Trastevere: intervista a Marco Rossi Doria, maestro dei “deboli” e ora sottosegretario all’Istruzione. La gratitudine verso gli insegnanti e i programmi del Ministero. Educazione ambientale: «L’ambiente è fra i grandi temi del mondo di oggi e quindi deve esserlo anche per la scuola»

Marco Rossi Doria è una personalità fuori dall’ordinario…

 


Nato a Napoli nel 1954, è maestro elementare dal 1975. Conosciuto come maestro di strada dei Quartieri Spagnoli di Napoli, è famoso il suo progetto “Chance” per il recupero dei minori. Ha curato la mediazione fra i servizi sociali del Comune, gli insegnanti delle maggiori scuole di riferimento, la psicologa del tribunale, il rappresentante della parrocchia, del centro sportivo e alcune associazioni del privato sociale che intrattenevano i bambini durante i pomeriggi.

 

Ha insegnato in Italia e all’estero ed è da venti anni formatore di docenti sulle didattiche laboratoriali e le metodologie di contrasto della dispersione scolastica, del disagio e dell’esclusione precoce. Nella seconda metà degli anni ’90 è stato membro della commissione per le indicazioni nazionali della scuola dell’infanzia, della scuola primaria e della scuola media e della Commissione nazionale di indagine sull’esclusione sociale presso il Ministro della Pubblica Istruzione. Ha lavorato alle linee guida del nuovo obbligo di istruzione per tutti, fino a 16 anni. Nel 2001 ha fatto anche parte della delegazione italiana all’Onu per l’applicazione della Convenzione sui diritti dell’infanzia e ha lavorato per la Provincia autonoma di Trento per progetti a favore dei bambini e ragazzi con bisogni educativi speciali e per l’innovazione della formazione professionale.
Da fine novembre 2011 Rossi Doria è uno dei due sottosegretari all’Istruzione del governo Monti.


Nella scuola un impegno a volte poco riconosciuto

Conosciamo la sua sensibilità e il suo impegno rispetto all’inclusione e ci congratuliamo molto del suo incarico. Della sua lunga esperienza di “maestro di strada” cosa ha portato in viale Trastevere e cosa pensa di tradurre in azione del MIUR?
«Porto con me la convinzione che nella scuola c’è senso di responsabilità e impegno indefesso, a volte poco riconosciuto, di tanti dirigenti scolastici, maestri e professori, a cui è necessario trasmettere la nostra fiducia. La prima delle sfide che abbiamo di fronte è restituire alla scuola la sua capacità di essere motore dell’ascensore sociale. La “scuola di tutti” deve includere soprattutto chi ne ha più bisogno, i ragazzi a rischio dispersione, concentrando l’azione educativa su di loro con strumenti flessibili e adeguati alle loro esigenze. Per essere di tutti, la scuola deve essere rivolta anche a ciascuno.
Nel poco tempo e con le risorse limitate a nostra disposizione, stiamo cercando di dare alle scuole qualche strumento in più per farle funzionare e per organizzarsi meglio. Nel decreto semplificazioni approvato da poco in Consiglio dei Ministri ci sono i primi passi in questa direzione.
Stiamo anche lavorando insieme al Ministro Profumo e al Ministro Barca per destinare le risorse provenienti dai Fondi europei alle quattro regioni meridionali (Campania, Sicilia, Calabria e Puglia) secondo alcune priorità. Oltre all’edilizia scolastica e alle dotazioni tecnologiche e multimediali, ci sono investimenti destinati al rafforzamento delle conoscenze e competenze indispensabili, al recupero del ritardo scolastico e al contrasto alla dispersione. Per la lotta alla dispersione si tratta di circa 27 milioni di euro che verranno destinati a prototipi. Ci rivolgeremo, cioè, a scuole già attive con azioni innovative e coordinate con il territorio, che hanno dimostrato la loro efficacia e che possono essere estese e implementate. È un primo passo, ma la mia esperienza mi dice che è fondamentale partire sempre da quello che c’è e che già funziona. E che la continuità è fondamentale per seguire adeguatamente i ragazzi».

Tema caro al presidente Ciampi (inaugurazione dell’anno scolastico 2001/2002) era la scuola pubblica del ‘900, che aveva reso omogenee cultura e lingua per cittadini e cittadine italiane promuovendo mobilità sociale, e che all’inizio del 2000 avrebbe dovuto assolvere allo stesso compito anche con i figli di stranieri.
Nonostante le difficoltà sottolineate da Don Milani – difficoltà che nessuno come Lei conosce e ha contrastato – nella seconda metà del ‘900 questo è avvenuto con un’ampia scolarizzazione. Oggi la scuola promuove ancora inclusione e mobilità sociale?

«Le scuole fanno un grandissimo lavoro di scolarizzazione e integrazione degli alunni di cittadinanza non italiana. Ce lo dicono i dati del Rapporto realizzato dal MIUR in collaborazione con l’ISMU nel 2009/10.
Nessuna istituzione quanto la scuola pubblica ha permesso ai ragazzi provenienti dalle famiglie povere di migliorare la propria condizione di vita. Conosco un po’ i tesori contenuti nella Biblioteca del Ministero dell’Istruzione: raccontano 150 anni di sforzi per l’inclusione. I registri dei primi anni del ‘900 descrivono classi interamente composte dai figli dei contadini e degli operai, perché la scuola pubblica serviva soprattutto a loro. Gli altri avevano il precettore in casa.
Intorno al 1980 questo meccanismo di mobilità e inclusione ha decisamente rallentato: purtroppo oggi la scuola fa fatica a tenere in classe proprio gli studenti che ne avrebbero più bisogno. È un paradosso che va superato, spezzando il circolo vizioso tra la povertà e i bassi livelli di istruzione che tende a riprodursi tra le generazioni».

Parlare bene degli insegnanti e della scuola

L’autorità (e l’utilità) della scuola non sempre è riconosciuta nella società e molti giovani, più ragazzi che ragazze, hanno percorsi scolastici deludenti o interrotti perché l’autostima è di basso profilo e non percepiscono prospettive per il futuro. Quali sono le misure possibili per riproporre la centralità della scuola e riattivare il riconoscimento dell’impegno e la speranza per il futuro?
«Parlar bene degli insegnanti e della scuola in generale. Dare spazio alle idee e alla generosità con cui tanti si dedicano al progetto educativo attraverso un potenziamento dell’autonomia scolastica. Parlare ai ragazzi e con i ragazzi un linguaggio di verità, consapevoli delle grandi differenze tra il nostro mondo e il loro. Rimettere lo studente al centro dell’apprendimento e quindi saper dare risposte diverse a bisogni diversi. Dedicare qualche risorsa a chi opera nei contesti più difficili, incentivare una qualche “discriminazione positiva” verso i più deboli. Trovare forme di valorizzazione della professione docente, anche in assenza di risorse per un aumento di stipendio. E poi, questo lo dico da insegnante, saper cogliere il cambiamento enorme che è avvenuto nelle forme, negli spazi e nei tempi dell’apprendimento. Le difficoltà che gli insegnanti incontrano non sono la premessa della morte del nostro ruolo sociale: potenzialmente possiamo fondare proprio su queste difficoltà e sulle risposte al cambiamento la base della sua rinascita. C’è ancora un grande bisogno di scuola pubblica e di bravi insegnanti».

In Conversazioni sull’educazione Zygmunt Bauman e Riccardo Mazzeo riflettono sul rapporto tra l’economia del consumo e la crisi del sistema educativo. Una volta che il sapere è ridotto a merce, l’educatore è un semplice venditore. L’educazione non forma più nessun uomo, e donna, nuovo, ma contribuisce a riprodurre la figura dell’homo consumens.
Se l’accento è sulla competitività e sul primato del privato sul bene comune, come possiamo rilanciare l’apprendimento e il valore della conoscenza come ricchezza condivisa?

«È da tempo che la scuola e gli insegnanti lavorano in “direzione ostinata e contraria”, purtroppo, rispetto ai valori trasmessi in altri luoghi, come la TV o la strada, che sembrano ai ragazzi, non senza qualche ragione, molto più attraenti e “veri” della loro aula. Ma dobbiamo comprendere che i cambiamenti avvenuti sono davvero molto profondi: riguardano la molteplicità dei luoghi dove oggi si impara, la quantità di esperienze che i ragazzi vivono fuori da scuola, il rapporto con una mole di informazioni e innumerevoli strumenti tecnologici. Addirittura il funzionamento del cervello si è modificato. È qui che la scuola deve riprendere in mano la sua funzione educativa, coniugando tradizione e innovazione, cercando di far emergere competenze dei ragazzi che oggi restano sempre escluse dall’apprendimento formale e lavorando intensamente sulle conoscenze irrinunciabili, quelle senza cui è difficile esercitare anche i diritti minimi della persona.
E comunque non vedo un appiattimento dello spirito critico delle nuove generazioni, anzi, vedo una rinascita importante di attenzione e curiosità verso il mondo, spinta forse in parte anche da questa crisi economica e dalla consapevolezza che dovranno farsi largo in un mondo più complesso di quello in cui noi siamo cresciuti».


La crisi del progetto educativo

La sensazione è che da anni, e non solo in Italia, non ci sia una sufficiente attenzione della società civile e delle istituzioni verso l’educazione, né un grande dibattito su quale progetto educativo deve stare dietro l’organizzazione del sistema dell’istruzione (pensiamo, ad esempio, in anni passati, ai “quattro pilastri” del rapporto Delors o ai “sette saperi” di Morin, o, in Italia, alla commissione dei saggi di Berlinguer – del possibile esito finale di Ceruti & Co non si può dare un giudizio in seguito alla caduta prematura del governo Prodi).
Qualcuno trova la spiegazione nella perdita di sovranità degli stati – che nasce dalla globalizzazione e dalla finanziarizzazione dell’economia e che la recente crisi strutturale ha evidenziato al massimo.
Senza sovranità non ci può essere nemmeno un progetto per la scuola, non a caso esempi di “progetto educativo “portati avanti con impegno e passione si trovano soprattutto a livello di amministrazioni locali, dove sono ancor identificabili ruoli individuali e collettivi.
Se esiste questa crisi strutturale del progetto educativo, come pensa che si possa affrontare?

«Oggi in tutti gli Stati membri dell’Unione Europea la riflessione sull’educazione si orienta almeno a grandi linee sulle stesse problematiche: come rendere la scuola il primo fattore di mobilità sociale; come fornire ai ragazzi le conoscenze e competenze indispensabili per farsi largo in un mercato del lavoro interconnesso sul piano globale, fortemente competitivo ma anche ricco di stimoli sconosciuti per le passate generazioni; come valorizzare al massimo la professione docente, incerta e a volte messa all’angolo per i forti cambiamenti sociali e direi anche antropologici che sono intervenuti, dall’aumento del numero di studenti provenienti da altre culture e altri paesi all’uso quotidiano delle nuove tecnologie dei cosiddetti “nativi digitali”, dall’eclissarsi della normatività all’aumento di aree di frontiera e cerniera tra discipline un tempo ben distinte.
La crisi del progetto educativo esiste e non riguarda solo l’Italia, ma in Italia abbiamo passato un periodo molto buio, in cui a tutte le difficoltà si aggiungeva spesso la critica spietata di alcuni “soloni” che strombazzano contro noi insegnanti senza essere mai entrati in classe. E per troppo tempo si è guardato ai soldi per la scuola come a una spesa, anziché un investimento strategico. Ma tutto questo sta cambiando e poco a poco si restituisce alla scuola una posizione di centralità nel dibattito pubblico. Si torna a parlare proprio di crisi educativa e di ruolo degli insegnanti e c’è maggiore consapevolezza sull’importanza di un sistema d’istruzione di qualità. Questi sono segnali incoraggianti. Che spingono a concentrarsi su un apprendimento iniziale e rigoroso, su una diffusa laboratorialità, su didattiche plurali, capaci di coniugare cose “tradizionali” e l’universo promettente di nuovi media, ecc».

Una professione bella e difficile

C’è chi dà un quadro sconfortante dello stato d’animo e del livello del corpo insegnante oggi: la generazione, cui anche lei appartiene, formatasi in tempi di grande fervore politico è andata in pensione o è sfiduciata, le generazioni più recenti sono cresciute in un clima molto diverso (di declino morale e culturale del paese) e sono minate dal precariato e dalle ristrettezze in cui versa il sistema educativo.
Il quadro, insomma sarebbe così riassumibile: insegnanti demotivati, poco aperti, individualisti; ma è anche vero che se da un lato sono in crisi organizzazioni come i partiti e i sindacati, oggi l’impegno sociale e culturale passa per altri canali, per i mille rivoli di varie forme di aggregazione e molto attraverso i social network; il suo blog sembra avvalorare la seconda ipotesi.
Quali sono oggi i canali per intercettare e rilanciare l’impegno e la passione degli insegnanti?

«Il primo canale che va utilizzato, come dicevo prima, è un linguaggio di gratitudine e rispetto verso chi ha scelto o sceglie questa difficile e bella professione. Credo che un rilancio della professione docente dovrà necessariamente posare su due pilastri: un sistema di valutazione di tipo cooperativo, che dia la possibilità al gruppo docente di riflettere insieme sui punti di forza e debolezza del lavoro in classe; forme di riconoscimento, che come dicevo, purtroppo, al momento non si potranno tradurre in un aumento degli stipendi, ma che forse, in parte, possono essere compensate da dotazioni didattiche e tecnologiche avanzate, agevolazioni per l’accesso alla cultura, per l’acquisto di libri, ecc.
Poi c’è il problema drammatico della precarietà e dell’instabilità degli organici. Il Ministro ha illustrato alle Camere le cose che vorremmo mettere in campo: un organico dell’autonomia, che tenga insieme anche le figure per il sostegno, le supplenze, il recupero e che sia stabile per un triennio almeno; far procedere il reclutamento secondo due diversi canali, come previsto per legge: lo scorrimento delle graduatorie e i nuovi concorsi. Per dare risposte ai precari in attesa, ma dare anche una chance ai giovani neolaureati per entrare a scuola.
Ripeto, io nella scuola non trovo né rassegnazione né atteggiamenti protestatari. Incontro tanti collegi docenti anche ora, da Sottosegretario, e posso dire soltanto che sono orgoglioso della categoria a cui appartengo e che ho scelto a 21 anni come impegno civile e professionale».

La “rivoluzione degli spazi

Lei ha scritto recentemente sul suo blog che una “rivoluzione” degli spazi è fondamentale per innovare anche metodi ed approcci educativi e pedagogici. Questo non può che fare piacere alla nostra rivista, che è stata la prima, già negli anni ’80, a portare in Italia il tema della “scuola come ambiente”. Ma per fare questo, non è forse necessario anche costruire una solida cultura ambientale in tutti, cominciando da apparato ministeriale, dirigenti scolastici, insegnanti? Non c’è troppo poca educazione ambientale oggi in Italia?
Si può mettere in agenda, tra le priorità, un grande rilancio di attenzione per l’educazione ambientale?

«In uno spot pubblicitario di qualche anno fa c’era una maestra che chiedeva ai suoi alunni cosa fosse il tonno, e loro rispondevano in coro: “Una scatoletta!”. Questa battuta mi è sempre sembrata indicativa del mondo in cui crescono i ragazzi oggi, dove la natura ha smesso di essere l’ambiente di apprendimento per eccellenza. Molti saperi così si perdono insieme all’identità stratificata nelle generazioni. I bambini di Don Milani erano poveri, ma sapevano chi erano e sapevano fare delle cose. Anche i miei primi alunni andavano a pescare sugli scogli del molo e facevano volare aquiloni costruiti da loro. Ora non lo sanno fare più. La misura del mare e del vento come altro può avvenire? Me lo chiedo quando li vedo imprigionati davanti alla TV.
Ma credo anche che recentemente ci sia una maggiore attenzione delle comunità all’ambiente che si traduce in moltissimi progetti validi portati avanti dalle scuole. La sensibilità, quindi, sta aumentando. L’amministrazione centrale deve accompagnare questa trasformazione con una riflessione più generale: che tipo di spazio deve essere oggi una scuola? Quali caratteristiche, quale organizzazione degli spazi, quali dotazioni deve avere? Quanto deve essere aperta una scuola, quali pareti non più immobili può avere per dividere gli spazi, chi ci entra e per quale modi di insegnare e apprendere? E poi, quanta scuola “extra moenia”?
Per questo all’interno del decreto semplificazioni sono state inserite alcune linee guida per realizzare un Piano nazionale per l’edilizia scolastica capace di guardare non soltanto al gravissimo problema della sicurezza e agibilità degli edifici, ma anche alle nuove esigenze didattiche, pensando alla costruzione di nuove scuole e a una maggiore efficienza energetica. Si prevede, sempre nel decreto, di ridefinire i criteri di destinazione a uso scolastico degli edifici: sono stati scritti molto tempo fa, quando la didattica era diversa e la coscienza ambientale non era in cima alle priorità e gli spazi erano pensati per trasmettere e non per esplorare il sapere umano.
L’ambiente è fra i grandi temi del mondo di oggi e quindi deve esserlo anche per la scuola. Noi cominciamo da qui».

Nel numero di marzo 2012, .eco ha pubblicato un’ampia intervista a Marco Rossi Doria, sottosegretario all’Istruzione nel Governo Monti. Riportiamo qui il testo integrale dell’intervista.

Patrizia Bonelli, Mario Salomone

29 febbraio 2012

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